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Coronavirus: Brusaferro (Iss): «Ecco cosa non sta funzionando»

Parla Brusaferro (Iss): bene la prima linea dei medici, in ritardo la consapevolezza degli italiani. Occorrerà tempo per verificare se le misure decise dal governo avranno un effetto positivo

Per uno che non ha mai amato stare sotto i riflettori, gli ultimi 20 giorni sono stati uno tsunami anche dal punto di vista personale. Eppure Silvio Brusaferro, medico per tanti anni a Udine prima di approdare alla presidenza dell’Istituto superiore di sanità, è diventato a suo modo uno dei volti dell’emergenza coronavirus in Italia. Quello tranquillo, e pacato, anche innanzi ai numeri sempre più drammatici dei bollettini quotidiani sul numero di contagi. Da giorni si appella al coraggio e al buon senso degli italiani: quello di cambiar vita, per un breve tempo, pensando al futuro. «Perché l’elemento decisivo di tutta questa storia siamo noi». L’Italia, però, ha due volti in questa epidemia: la prima linea, «coi medici e gli infermieri disposti a sacrificare tutto per gli altri». E quello di chi non rinuncia all’aperitivo, alla festa di compleanno, ai pomeriggi alla bocciofila. Come se niente stesse accadendo, attorno a sé.

Professore, oltre 12mila casi, un Paese allo stremo. Cosa succede adesso?

Stiamo alla realtà. Abbiamo una situazione che vede un’area del Paese con una circolazione sostenuta del virus – il Nord, in particolare la Lombardia – che sta mettendo alla prova il sistema sanitario. I casi positivi che noi quotidianamente censiamo sono indicazione di contagi avvenuti all’incirca la settimana scorsa. Abbiamo messo in campo misure straordinarie per garantire il distanziamento sociale, l’unica strada percorribile per rallentare l’epidemia. Un risultato prioritario al Nord, ma indispensabile anche nel resto del Paese. Queste misure daranno effetto tra una settimana. La nostra scommessa, la volontà che ci sostiene e l’effetto che vogliamo ottenere è quello di fare in modo che laddove abbiamo casi, questi non si trasformino in situazioni di picco.

Si è parlato e si parla tanto del picco di questa epidemia. Davvero non siamo in grado di fare previsioni, di dire quando arriverà, anche in base ai modelli epidemiologici su cui vi state basando?

Per ora no. Come in ogni epidemia, stiamo assistendo a una crescita costante della curva, e le curve hanno un picco. Poi i casi cominciano a decrescere. Le variabili, però, sono le misure adottate strada facendo per ridurre i nuovi contagi e nei nostri modelli dobbiamo valutare quelle di questo caso. Ecco perché, per esempio, il modello cinese – a cui pure stiamo guardando – ci è utile ma non può dirci molto di cosa succederà in Italia. Da noi, per esempio, c’è anche la variabile di una popolazione molto più anziana, un fattore che sta im- pattando molto dal punto di vista dei decessi. Quello che stiamo facendo ora, con la decisione di pubblicare due volte a settimana i risultati dell’indagine epidemiologica condotta dall’Istituto sul coronavirus in Italia, è smettere di concentrarci soltanto sui dati di ogni giorno per guardare e analizzare la situazione da un punto di vista complessivo. Soltanto quando avremo tutte le risposte, o il maggior numero di risposte possibili, potremo fare anche delle previsioni più precise.

Che cosa è funzionato meglio, dall’inizio di questa crisi, dal suo punto di vista?

La prima linea, chi non va a casa da giorni o da settimane negli ospedali per non smettere di curare e accogliere i malati. Medici, infermieri, operatori sanitari, che mi sento di dover ringraziare continuamente. Chi sta facendo tutto il possibile a costo di sacrificare la propria vita in famiglia, le proprie abitudini. Chi non si tira indietro dalle proprie responsabilità.

E cosa invece non ha funzionato?

La consapevolezza che come cittadini abbiamo acquisito troppo tardi. E che in certi casi, purtroppo, non abbiamo ancora acquisito. Gli appelli, le circolari, tutti i richiami non bastano. Solo ora sembra che gli italiani stiano davvero cominciando a capire la battaglia che siamo chiamati a combattere. Il problema è che questo è anche l’elemento decisivo, per vincerla: soltanto se accettiamo di cambiare le nostre abitudini, anche al caro prezzo che in questo momento ci viene richiesto – e tutti, senza distinzione di età o di residenza – possiamo fermare l’epidemia. Questo virus, così altamente contagioso, si nutre di contatti, di vicinanza: se si terranno comportamenti non coerenti con le indicazioni di distanziamento, sarà molto difficile riuscire a modificare le curve.

Anche l’Europa non ha tanto funzionato, però: l’emergenza coronavirus che ci ha colpiti per primi e che ora sta arrivando anche nei Paesi vicini non è mai stata considerata un problema da affrontare con una strategia comune. Lei che ne pensa?

I virus non riconoscono i confini amministrativi tra Stati, non sono sfide nazionali. L’Italia oggi è la frontiera dell’epidemia, che certamente non si fermerà da noi. Nelle ultime settimane non si è mai interrotto lo scambio di informazioni scientifiche coi medici e gli esperti degli altri Paesi ma certo, è innegabile, è mancato e manca un coordinamento che sarebbe stato indispensabile.

Lei lavora senza sosta, tra uffici e riunioni, da giorni e giorni. Ha paura d’essere contagiato?

Non ho paura. O meglio, ho paura di poter contagiare chi sta attorno a me. La mia famiglia per fortuna è lontana, a Udine: non torno a casa da settimane ormai.

Fonte: Viviana DALOISO | Avvenire.it

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