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Essere reali

David Foster Wallace ha scritto che veder giocare Roger Federer era un’esperienza religiosa, cioè l’esperienza del sacro, che è quando la vita dà e dice se stessa, una densità di realtà capace di farci esistere di più. Il sacro infatti dà fondamento, senso e valore al vivere, perché noi non ci diamo la vita da soli. Essere religiosi non è primariamente aderire alle credenze storiche che strutturano il sacro in miti, riti e regole, ma essere umani, cioè aver bisogno di una vita significativa e autentica, che resiste alla morte e alla noia. Nessuno può vivere senza il sacro, e tutti traduciamo in miti, riti e regole, ciò che riteniamo dia vita: senso, valore e stabilità all’esistenza. Domandare in chi o cosa credi è chiedere chi e cosa ti rende reale. Come facevano gli antichi con divinità come Giustizia o Vendetta, ciascuno di noi attribuisce la maiuscola agli dèi per cui è disposto a far «sacrifici»: Lavoro, Bellezza, Potere, Salute, Famiglia, Denaro, Popolo, Successo, Conoscenza… e naturalmente Sport (essere esclusi dai Mondiali è un «sacrilegio» che ha richiesto il «sacrificio» di un uomo). Wallace lo sa e intitola Roger Federer come esperienza religiosa le pagine da inviato del New York Times a Wimbledon 2006: il tennis dell’atleta svizzero manifestava un altro mondo. Dopo la recente finale del Roland Garros, vinta in quasi sei ore da Alcaraz, vado oltre: «Jannik Sinner come esperienza di salvezza». Perché? Proprio perché è il numero uno ad aver perso.

Wallace identificava l’estasi religiosa nella perfezione del gesto tennistico di Federer al culmine della sua carriera. Un’eredità greca: il divino si mostra in Terra come armonia che vince il tempo, canone di perfezione che non conosce tramonto, come il Discobolo o il Partenone. Ma nella sconfitta di Sinner, che ai punti resta il numero uno, c’è qualcosa di diverso. Sconfitto significa etimologicamente «incompiuto» non «perdente». Di cosa è allora esperienza la sconfitta? Del limite e quindi di ciò che è veramente reale: de-finire è porre i «fines», i confini, quelli che traccereste se vi chiedessi di disegnare l’Italia e che citavamo alle elementari per definirla (confina a nord con…). Dove finisci è chi sei e con chi sei. L’umano è come le funzioni in matematica: il valore si mostra nel limite. Ettore sa che morirà, ma affronta lo stesso Achille: è lui l’eroe dell’Iliade perché è uomo, l’altro, non fosse per il segreto del tallone, sarebbe un dio. Nella nostra cultura la perfezione è diventata una regola sacra con miti e riti: è reale solo chi è perfetto, chi raggiunge certi standard, chi non fallisce, chi nasconde il tallone d’Achille… Una religione severa basata sul successo, in cui solo il «divo» (divino) esiste veramente, la sua vita ha valore, e stargli vicino, in foto o in community, rende reale anche me, che altrimenti sono solo apparenza. Per questa religione la sconfitta è irreale (scandalosa, da nascondere) e il «loser» una categoria bandita. Ma se la perfezione è estasi, l’imperfezione è salvezza. Guardate i corpi. La vittoria fa levare le mani al cielo, in applausi, in abbracci. La sconfitta mostra corpi contratti, isolati, disfatti. Eppure ha un potere di verità maggiore, perché ha bisogno dell’altro. Ciò che è perfetto è completo, non manca di niente, si può solo ammirare, per questo gli dèi stanno in alto, distanti, invece se sei finito in un buco o stai annegando soltanto la mano altrui può salvarti. Fateci caso. Dopo un fallimento restano le amicizie vere e l’amore autentico, chi rimane non lo fa perché gli siamo utili ma perché ci vuole al mondo a prescindere dalla classifica, ama il nostro essere «finiti», limitati. Solo dopo la sconfitta ci liberiamo dell’illusione di essere padroni della vita, e cominciamo a essere grati, e la riconoscenza è la misura della felicità. Solo la sconfitta fa scoprire il potere del silenzio e la libertà dal consenso, impossibile per chi deve essere virale. Solo la sconfitta regala la verità, perché essere umani è mettersi alla prova con la vita e quindi sbagliare di continuo, solo chi ne fa esperienza comprende sé e gli altri, i perfetti invece sono rigidi e implacabili con gli errori. Solo dalla sconfitta nasce la creatività e nuove soluzioni, perché è come la potatura che concentra la linfa e quindi i frutti proprio sulla ferita. Solo la sconfitta educa il coraggio, perché ci porta a chiedere aiuto, superando la vergogna di non essere all’altezza. Solo nella sconfitta scopro che non mi basto, che il fondamento del mio vivere è altrove. Solo la sconfitta insegna il buon umore, perché la smettiamo di prenderci troppo sul serio: comunque ci aspetta una lapide. Tutto questo è vietato dal primo comandamento dei perfetti che massacra i giovani o li fa impazzire: «non avrai altro dio all’infuori di te», sii il numero uno, il solo. E solo. Aristotele, riferendosi alla vita in società, diceva infatti che chi è del tutto autosufficiente o è un dio o una bestia. Invece l’umano è limitato, quindi in relazione: quando il re Priamo va a chiedere il corpo straziato del figlio Ettore, Achille intuisce da quel padre prostrato che l’amore più del trionfo rende eroi. Tutte le religioni donano salvezza. La perfezione «salva» perché rende inarrivabili, il limite invece perché lega ad altro. La seconda via è più vera perché la vita non ce la diamo da soli, accade in noi come trama, puzzle: sono i limiti a permettere l’incastro e la tenuta (la stretta di mano, l’abbraccio, la carezza…), mentre il perfetto non ha irregolarità, non lega e non si lega, non tocca e non è toccato, è «di un altro pianeta». Non è la morale dei vinti, né l’elogio del partecipare per digerire la disfatta, ma amore per la vita com’è: un intreccio di legami orizzontali e verticali che regge perché ciascuno sostiene ed è sostenuto. Federer, Maradona, Jordan ci ricordano che gli dèi possono fugacemente manifestarsi sulla Terra, e li chiamiamo «miti». La loro presenza ci stupisce, ci rallegra, ci dà energia, ci ispira, ma non ci basta. A noi serve sapere se si può perdere senza perdersi, fallire senza morire, non essere all’altezza senza sprofondare, perché è nel limite che troviamo «altro», l’altro: i legami che salvano. Forse per questo Sinner ha detto che sarebbe tornato nel suo paesino: «per staccare». O per riagganciarsi? La vittoria ci rende regali, la sconfitta reali.

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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