Il gesuita Carlo Casalone della Pontificia Accademia per la Vita riflette, a partire dalla vicenda di Pieroni, lo scrittore che ha messo fine alla sua vita, sulle condizioni di chi richede il suicidio o l’eutanasia
Un tema che tocca le corde più sensibili di ciascuno. Il fine vita interessa tutti, ma per chi è affetto da una malattia altamente invalidante o dolorosa pone qualche interrogativo in più. In assenza di una legislazione specifica ci si rifà alla sentenza della Corte Costituzionale del 2019. Abbiamo chiesto a padre Carlo Casalone, della Pontificia accademia per la Vita una riflessione a partire proprio da lì. «La sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019», spiega il gesuita, «ha introdotto un cambiamento di forte impatto nel nostro Paese. Da una parte, riafferma che istigazione e aiuto al suicidio rimangono reati, per proteggere giuridicamente il bene della vita soprattutto in condizioni di fragilità; dall’altra, riconosce che l’evoluzione della medicina ha trasformato profondamente le circostanze in cui avviene la morte. Identifica pertanto quattro note condizioni di non punibilità per chi agevola l’esecuzione del suicidio di una persona che: dipende da trattamenti di sostegno vitale, è affetta da una patologia irreversibile, denuncia sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili ed è capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La sentenza chiede poi al Parlamento di intervenire con una legge, a cui però non si ancora arrivati. Da qui l’iniziativa di varie Regioni, fra cui la Toscana, prima a declinare normativamente la Sentenza 242. Di tale legge si è avvalso Daniele Pieroni.
Una maggiore diffusione delle cure palliative può essere una risposta alla sofferenza?
«Si, la medicina palliativa si rivolge alle persone gravemente ammalate, per trattare i sintomi e preservare la migliore qualità di vita, alleviando dolore e sofferenza. Si interessa anche degli aspetti relazionali, rivolgendosi pure alle famiglie. Il processo del morire viene inteso come un evento da accompagnare, senza accelerarlo né ritardarlo con ostinazione irragionevole. Una modulazione dei trattamenti guidato dal criterio di proporzionalità, che permette di valutare quando impiegarli e quando sospenderli, come anche la Chiesa ha sempre sostenuto».
Ma non tutti vi hanno accesso.
«Sarebbe saggio, prima di ogni altra decisione sul fine-vita, rendere effettivamente disponibili le cure palliative, che non sono accessibili in modo omogeneo sul territorio nazionale, come peraltro richiede la legge 38/2010. Lo stesso dibattito pubblico ne trarrebbe vantaggio, perché sarebbe più chiaro che per togliere la sofferenza non occorre togliere la vita. Sarebbe facilitato quel confronto più pacato e approfondito che giustamente auspica il cardinale Lojudice. Tuttavia, non tutti trovano risposta adeguata nelle cure palliative, in particolare chi percepisce la propria sofferenza come non riducibile in termini medici e chi chiede di avere controllo sulla propria morte, determinandone tempi e modi. Qui emerge una diversità nelle visioni della vita e della morte presente nella nostra società».
In che direzione dovrebbe andare la legislazione?
«Premettiamo che il togliersi la vita è una pratica ritenuta illecita nella tradizione della teologia morale della Chiesa, per una molteplicità di validi motivi. Rimane però la domanda se, in una società democratica e pluralista, possano ammettersi mediazioni sul piano giuridico, in cui anche come credenti siamo chiamati a fornire il nostro contributo alla ricerca del bene comune che la legge intende promuovere. Precisiamo che qui si tratta di assistenza al suicidio e non di eutanasia. La distinzione è delicata e non priva di zone grige. Ma un conto è l’autosomministrazione di un farmaco letale, altro conto è chiedere a un terzo di procurarmi la morte. Nel primo caso è in gioco la disponibilità della propria vita, magari in modi diversi da quelli che io considero plausibili, nel secondo è in gioco la violazione della vita altrui. In questa prospettiva, la sentenza 242 potrebbe rappresentare un punto di equilibrio fra diverse visioni e sensibilità etiche».
Come accompagnare le persone che vedono nel suicidio l’unica risposta alla loro condizione?
«La prestigiosa rivista medica Lancet ha recentemente istituito una commissione sul “valore della morte”, che ha mostrato come i pazienti che richiedono il suicidio (o l’eutanasia) hanno paura non tanto dei sintomi, ma della solitudine, di essere un peso, di non contare per nessuno. Quindi la risposta a chi vuole “farla finita” è un compito che riguarda la qualità delle relazioni, anche nell’intero corpo sociale. In tutta la storia delle culture il significato della vita, soprattutto quando è messo alla prova dalla sofferenza e dalle crisi di senso, è frutto di una ricerca condivisa in molteplici forme, artistiche, letterarie, religiose, non riducibile e non delegabile alla sola pratica medica».
Fonte: Annachiara Valle | FamigliaCristiana.it