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ULTIMO BANCO :: 22. La meraviglia nelle scarpe

«Un ragazzaccio / scappò in Scozia / e scoprì che la terra era altrettanto dura / una iarda altrettanto lunga / una ciliegia altrettanto rossa / una porta altrettanto legnosa / una canzone altrettanto gioiosa che in Inghilterra… Così si fermò / nelle sue scarpe / e si meravigliò / si meravigliò / si fermò nelle sue / scarpe e si meravigliò». Sono i versi di una filastrocca che John Keats, uno dei più grandi poeti inglesi, scrive in una lettera per raccontare alla sorella del suo viaggio a piedi in Scozia, dove era andato a caccia di sole e ispirazione. Camminando insieme a un amico tra altopiani e laghi scozzesi, nel giugno del 1818, Keats scopre che tutto è bello… proprio come nella sua terra d’origine: in quei luoghi il poeta ritrova lo stupore grazie allo sguardo attento e paziente sulle cose, nella loro costante e onnipresente bellezza, ovunque ci si trovi. Meravigliarsi «stando fermi nelle nostre scarpe» è infatti ciò di cui tutti abbiamo bisogno quotidianamente, perché se non troviamo bellezza almeno una volta al giorno perdiamo la capacità di abitare il mondo e amare la vita. La vera bellezza fa sentire a casa, anche quando ci mostra stanze oscure o chiuse. Come fa? Da un lato con la gratuità: ci regala la chiave della stanza senza che l’abbiamo cercata o meritata; dall’altro con l’armonia e la luce: ci assicura che ogni stanza è casa nostra, anche la più buia. Chi si abitua al brutto, senza accorgersene si chiude in cantina e perde la capacità di considerare il mondo una casa e gli altri gli invitati nella stessa dimora per una festa misteriosa. Abitare, forma frequentativa del latino habeo, «avere», significa infatti: continuare ad avere. La bellezza fa abitare perché fa possedere sempre ciò che ci dona, al contrario del brutto che disabita le cose: ce le sottrae, ci svuota e ci rinchiude.

Il brutto ci priva della speranza che può salvarci: di contro chi è toccato dal bello, torna a sperare, perché riscopre che la sua vita ha ancora uno scopo. La bellezza non spiega quale sia lo scopo, ma assicura che ne esista uno. Lo sa bene il Matto del film La Strada di Fellini, di cui abbiamo appena festeggiato i 100 anni dalla nascita: «Tutto ha senso, anche questo sassetto. E se sapessi quale sarei il Padre Eterno. Ma se questo sassetto è inutile, allora tutto è inutile. Anche le stelle». Lo dice a Gelsomina in una scena indimenticabile in cui la donna è disperata perché la sua vita le sembra del tutto inutile. Il Matto è un artista ambulante, un acrobata-clown capace di trovare il sublime nel quotidiano, il bello stando nelle sue povere scarpe, e per questo non perde mai il buon umore e ridona la speranza a chi lo guarda. Consola il dolore di Gelsomina con la bellezza del creato, perché la bellezza, grazie alla gioia che provoca, fa sperimentare e sperare in una certa «salvezza». In ogni suo film, Fellini cerca l’apertura su questo mondo «salvato», rappresentato spesso dal circo e dai clown, ed è proprio lì che le sue storie diventano porte sul mistero.

Anche Modigliani, di cui negli stessi giorni ricorrevano i 100 anni dalla morte, cercava queste aperture sacre nei volti dei suoi ritratti e nei loro occhi, che spesso rappresentava vuoti, a volte uno vuoto e uno pieno, ma raramente li dipingeva entrambi. Che si trattasse della moglie Jeanne, di una poetessa come Anna Achmatova, di un mercante d’arte o di una bambina, Modigliani rendeva trasparenti il corpo o il volto dei suoi soggetti, perché manifestassero l’anima: per questo allungava i colli e deformava le fattezze, perché il corpo non fosse apparenza, ma evidenza della verità che spesso cerchiamo di nascondere, ma che è invece la nostra unicità. Se dipingeva un occhio solo era perché – diceva – era quello rivolto al mondo, mentre l’altro era impegnato con il proprio mistero. Aveva imparato dagli antichi, i quali credevano che l’anima risiedesse nell’occhio e per questo la chiamavano «pupilla», diminutivo di pupa (bambola, bambina): per loro l’anima era la piccola immagine riflessa al centro dell’occhio. I ritratti di Modigliani, mostrando un esterno che è in realtà un interno, ci ricordano che l’irripetibile bellezza di una persona risiede in ciò che la «anima» (dal greco anemos: soffio), il soffio della vita o di Dio che dà la vita, ragione ultima per cui bellezza e sacro spesso si identificano.

Modigliani e Fellini, a gennaio 1920, si passano il testimone per ri-animare la vita disabitata: aprire le stanze dimenticate e oscure, e rinnovare la bellezza di quelle troppo consuete. Considerate, fermi nelle vostre scarpe come Keats, l’ultima cosa bella vissuta: il senso di libertà e pienezza che vi ha colto è l’esperienza della vita salvata – grazie a un istante ormai per sempre vostro – dalla morte e resa «dimora» (che significa «posto in cui ci si ferma»). Senza bellezza, almeno una volta al giorno, smettiamo di abitare la vita, divenendo stranieri proprio a casa nostra, proprio nelle nostre scarpe.

Fonte:  Corriere.it

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