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Il Green Deal dell’Ue riguarda più i soldi che il clima. Tanti soldi

Il piano ambizioso (costa tra i 6.000 e i 9.000 miliardi) rischia di distruggere l’industria europea senza risolvere i problemi del clima.

Il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha lanciato una nuova crociata europea per «salvare il pianeta». Stiamo parlando del “Green Deal” europeo, un mastodontico progetto che dovrebbe permettere all’Europa di diventare il «primo continente a impatto climatico zero entro il 2050». Ieri von der Leyen ha svelato il suo maxi piano al Parlamento di Bruxelles, ma è al vertice europeo di oggi e domani tra i capi di Stato e di governo che si giocherà la vera partita.

PROGETTO DA 300 MILIARDI ALL’ANNO

Il piano prevede, tra le altre cose, una massiccia riduzione del 50 per cento in soli 10 anni dell’uso dei pesticidi chimici in agricoltura, investimenti pubblici green (ma «preservando la sostenibilità del debito pubblico»), norme più soft sugli aiuti di Stato nei settori eco-sostenibili, un piano energetico con l’Africa e un fondo (Just Transition Mechanism) da un minimo di 35 miliardi a un massimo di 100 miliardi per favorire la transizione energetica dell’industria e «mitigare i costi sociali» della decarbonizzazione.

Inutile dire che il progetto è estremamente ambizioso, come l’omonimo piano americano lanciato dalla stellina democratica Alexandria Ocasio-Cortez, e che al di là della retorica gretina riguarda i soldi. Tanti soldi. Secondo i calcoli del Sole 24 Ore, per raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 i Ventisette dovranno investire in tutto 200 o 300 miliardi all’anno per i prossimi 30 anni, tra i 6.000 e i 9.000 miliardi dunque. Cioè circa la metà dell’intero Pil dei paesi Ue del 2019.

UNA SOLUZIONE PER L’ILVA?

Chi pagherà la costosissima transizione? Di fronte a queste cifre, il fondo da 35 miliardi ipotizzato da von der Leyen rappresenta poco più che bruscolini sopratutto per quei paesi, come la Polonia, che dipendono fortemente dal carbone o per quelli, come l’Italia, che hanno poco margine per gli investimenti a causa dell’alto debito pubblico.

Il governo italiano vede però il Green Deal come una possibile gallinella dalle uova d’oro. Il Movimento 5 stelle ha già cominciato a esultare pregustando di attingere dal fondo che la von der Leyen vuole mettere in piedi i miliardi che serviranno per la riconversione dell’Ilva. Da qui la prima domanda: il fondo servirà anche a pagare la transizione energetica nel settore dell’acciaio? C’è anche un altro tema che sta molto a cuore all’Italia: il commissario europeo agli Affari economici, Paolo Gentiloni, vorrebbe che gli investimenti green fossero scorporati dal calcolo del deficit. Se così fosse la neutralità climatica dell’Europa verrebbe sostanzialmente pagata facendo nuovo debito, ma von der Leyen ha già sbarrato questa strada sottolineando che bisogna «preservare al contempo adeguate garanzie contro i rischi per la sostenibilità del debito». La transizione energetica, quindi, dovrà essere finanziata dagli Stati nazionali attraverso l’aumento delle tasse o i tagli ad altri capitoli di spesa. Per soddisfare la “generazione Greta”, dunque, bisognerà tirare la cinghia.

SCUSA ETICA PER IMPORRE NUOVI DAZI

Il progetto della von der Leyen è così ambizioso e difficile da realizzare che autorevoli osservatori esterni, come ad esempio il Financial Times, cominciano a pensare che ci sia qualcosa sotto. Vuoi vedere, scrive il punto di riferimento della city, che il vero obiettivo dell’Europa non è salvare le foreste ma seguire la strada tracciata dal cattivissimo Donald Trump e usare una buona scusa etica per imporre dazi commerciali e tornare alla tanto vituperata era del protezionismo?

Va da sé che gli ingenti costi della transizione energetica renderanno le imprese europee ancora meno competitive rispetto a quelle americane e asiatiche. Le nuove regole e i nuovi standard europei, infatti, varranno solo per l’Europa in assenza di un accordo globale per ora impossibile da raggiungere. Di conseguenza la Commissione europea, per evitare il fallimento dell’industria europea, dovrà scoraggiare l’acquisto di merci dall’estero in settori (tanto per cominciare) come acciaio, cemento e alluminio.

IL SISTEMA DELLE QUOTE DI EMISSIONE

Il meccanismo, secondo la Reuters, funzionerà così:

«Gli importatori Ue di acciaio, alluminio e altri prodotti con elevata componente di carbonio dovranno acquistare delle quote di emissione come già fanno i produttori Ue nell’ambito dell’Emissions Trading System (Ets), il sistema di scambio di quote di emissione europeo. Ciò introdurrebbe effettivamente una tassa sull’import e aumenterebbe il prezzo delle merci importate, alimentando la competitività dei metalli e di altre merci prodotte nell’Ue. L’obiettivo sarebbe quello di contrastare la “rilocalizzazione delle emissioni”, in base alla quale le imprese Ue sono penalizzate da importazioni più economiche da paesi che applicano norme meno rigorose per affrontare il cambiamento climatico».

Questa strategia ha solo un piccolo problema: viola le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che esigono la parità di trattamento per prodotti simili tra produttori nazionali e stranieri. L’Ue potrebbe allora imporre la stessa tassa anche alle merci prodotte nell’Ue, ma così distruggerebbe la propria industria.

L’EUROPA RISCHIA IL SUICIDIO INDUSTRIALE

C’è anche un altro problema. Finché si parla di acciaio, tutti i paesi europei sono d’accordo a scoraggiare le importazioni dalla Cina, ad esempio. Ma cosa succede quando si tratta del settore automotive? Come nota il Ft, è «immensamente complesso» stabilire una imposta «giusta»: «I materiali e i componenti di un’automobile importata arriverebbero nel paese dove avviene l’assemblaggio finale da diversi Stati, con diverse economie, diversi livelli di emissioni e diversi regimi di tassazione delle emissioni». Il tema riguarda da vicino la Germania, ad esempio, dove il settore automobilistico è in crisi e non a caso le associazioni di categoria degli imprenditori tedeschi hanno già cominciato a mugugnare.

Il Green Deal della von der Leyen, dunque, deve scegliere se violare le norme internazionali, con tutto ciò che potrebbe conseguirne in materia di cause legali da parte di altri Stati produttori, o determinare il suicidio industriale dell’Europa. Due prospettive non esattamente allettanti. Ma utilizzare il criterio ambientale come unico faro nell’ambito del commercio internazionale è un esercizio pericoloso in generale.

«I PROTEZIONISTI SONO TORNATI»

Nel 2020 o 2021 l’Ue dovrà ratificare un trattato commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay. Bruxelles ha già annunciato che non lo farà se il Brasile, ad esempio, non smetterà di coltivare la canna da zucchero nei bacini fluviali della Foresta amazzonica. I paesi sudamericani hanno di conseguenza già iniziato ad accusare l’Europa di utilizzare la scusa dell’ambiente per avvantaggiare le proprie economie. Un’altra disputa riguarda l’importazione di carne di bovino, che subirebbe l’introduzione di dazi pesanti oltre le 99 mila tonnellate all’anno sempre per motivi ambientali. «L’empia alleanza dei protezionisti è tornata», ha commentato a proposito Hosuk Lee-Makiyama, membro del think tank European Centre for International Political Economy.

Indonesia e Malaysia, dal canto loro, hanno addirittura accusato l’Unione Europea di «moderno colonialismo» e «apartheid dei raccolti» dopo che Bruxelles ha bandito l’utilizzo dell’olio di palma nei biocombustibili per ragioni ambientali nel 2018. I due paesi, che fanno ampio affidamento sull’esportazione dell’olio di palma, hanno minacciato di portare l’Europa davanti al tribunale del Wto e di interrompere le relazioni diplomatiche con l’Ue.

LA CINA INQUINA ANCHE PER L’EUROPA

Ma se anche tutti questi problemi venissero risolti magicamente dalla Commissione europea, rimane un enorme tema di fondo: per «salvare il pianeta», come vorrebbe la von der Leyen, serve un accordo globale. Ad oggi, decarbonizzare l’economia europea in soli 30 anni a rischio di distruggerla non gioverebbe affatto all’ambiente. Secondo i dati riportati dal Global Energy Monitor (Gem), infatti, per la prima volta da 40 anni, nel periodo che va da gennaio 2018 a giugno 2019, in tutto il mondo, Cina esclusa, la capacità produttiva del parco delle centrali a carbone è calata di 8,1 gigawatt (Gw). Peccato che nello stesso lasso di tempo, la Cina abbia aumentato la propria capacità di 42,9 Gw. Nel mondo dunque è aumentata complessivamente di 34,9 Gw. Ecco perché, secondo l’analista di Gem, Christine Shearer, «l’aumento delle emissioni cinesi, anche se ogni singolo Stato del mondo dovesse completamente azzerare la produzione di energia derivante da carbone, non consentirebbe di raggiungere gli obiettivi di Parigi».

Ammesso e non concesso che «salvare il pianeta» sia possibile (si leggano a proposito le interviste di Tempi a Francesco Bernardi e Franco Prodi) il Green Deal europeo della von der Leyen da solo non sembra affatto un mezzo efficace per raggiungere lo scopo prefissato. Sempre che il vero obiettivo non sia quello ben poco green di rispondere alle aggressive politiche commerciali di Trump con le sue stesse armi.

Fonte: Leone GROTTI | Tempi.it

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