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Ma dov’è lo stato islamico? In realtà non c’è

La condanna dell’Is da parte della variegata galassia fondamentalista potrebbe essere l’occasione di una messa in discussione dell’ideale stesso di Stato islamico, dolorosa ma necessaria per quei pensatori che perseguono la modernità diversa dell’Islam.

«L’Is non rappresenta il vero islam»: quante volte musulmani di tutti gli orientamenti – con l’esclusione naturalmente dei jihadisti stessi – hanno ripetuto negli ultimi mesi questa affermazione, lanciando appelli ed emettendo pubbliche condanne. E per fortuna. Ma se il vero islam non sta di casa tra Raqqa e Mosul, dove trovarlo? A livello personale e comunitario è facile rispondere, indicando le tante esperienze in cui la fede islamica diventa motore di un impegno morale che arricchisce la convivenza sociale (nelle società plurali come quelle occidentali) o addirittura la fonda (in alcuni contesti mediorientali). Ma a livello politico la questione si fa più complessa, perché da decenni esponenti di diverse correnti impropriamente definite ‘fondamentaliste’ affermano che l’islam offre un preciso modello di organizzazione dello Stato.

Ebbene, se hanno ragione queste correnti, lo Stato islamico oggi dov’è? A questa ulteriore domanda gli esponenti dell’islam politico, a differenza di altre realtà del mondo musulmano, non possono sottrarsi, nel momento in cui si dissociano dall’Is, proprio perché da decenni impostano su questo punto il loro programma. Eppure, sembra proprio che lo Stato islamico sia, parafrasando il Manifesto del Partito comunista del 1848, «uno spettro che s’aggira per la umma».

Ci deve essere – lo insegna la teoria – ma non si sa bene dove. Non è l’Is, appunto. Ma non è neppure l’Arabia Saudita, con cui ad esempio i Fratelli Musulmani hanno un conto aperto. E a parte forse i diretti interessati, non molti candiderebbero Paesi come il Pakistan, l’Afghanistan o la Mauritania (che pure si fregiano del titolo) a esempi di Stato islamico realizzato, per non parlare naturalmente dell’Iran, sospetto a priori per la sua appartenenza sciita. La natura inafferrabile dello Stato islamico appare tanto più sorprendente se si considera che il cardine fondamentale dell’intera dottrina, da fine Ottocento in avanti, è che la religione musulmana fornirebbe non solo un sistema valoriale per l’aldilà e per l’aldiquà, ma anche concrete indicazioni per la realizzazione di una comunità politica alternativa rispetto agli altri modelli in circolazione («né con l’Occidente né con l’Oriente» fu un celebre slogan khomeinista) e immediatamente attuabile, senza dover attendere l’avvento dell’Ultimo Giorno.

Eppure, dopo un secolo in cui fiumi di inchiostro e di parole sono stati versati per martellare nelle menti e nei cuori questa tesi, e dopo mezzo secolo in cui, complice il fallimento del nazionalismo arabo, ingenti risorse economiche sono state spese per attuare sul campo la teoria, lo Stato islamico ancora non si materializza. E quando si tratta di indicare l’ultimo califfo con le carte in regola, un ideologo di primo piano come il pachistano Mawdudi (1903-1979) si trova costretto a risalire fino a ’Umar Ibn ’Abd al-’Aziz, il pio omayyade che regnò tra il 717 e il 720, cioè 1.400 anni fa. Sia chiaro: non che grandi figure di governanti musulmani non siano comparse anche più tardi, ma lo Stato islamico è qualcosa di più di un bravo sovrano, è un intero regime che si attua. Se si attua, appunto. Che il ritardo nella parusia dell’autentico Stato islamico sia allora da attribuire all’Occidente e alle sue trame neo-coloniali, eventualmente supportate da governi locali ‘collaborazionisti’? L’argomento, in questo caso, è debole: perché se davvero questa dottrina politica è il cuore dell’insegnamento coranico, non è pensabile che potenze avverse – e per definizione perdenti – possano arrestarne l’avvento oltre un certo limite. E allora, dopo mezzo secolo di tentativi, non rimane forse che un’unica, sconcertante, possibilità: che lo Stato islamico sia un miraggio, che si dissolve prima di lasciarsi incasellare in prosaiche leggi statuali o che in alternativa subisce una triste metamorfosi fino a diventare preoccupantemente simile a un regime medievale.

Non è questa la modernità diversa, ma pur sempre modernità, che questi pensatori perseguono, immaginando uno Stato capace di reggere il confronto con le grandi potenze. La condanna dell’Is dovrebbe perciò condurre, nella variegata galassia fondamentalista, fino a una radicale messa in discussione dell’ideale stesso di Stato islamico, per quanto dolorosa possa essere. Fermarsi prima significherebbe perdere un’occasione storica.
Fonte: La chimera dello Stato islamico | Fondazione Oasis

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