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Urge tornare non solo alla scrittura, ma al lavoro manuale!

Da quando i miei articoli appaiono online abbinati alle funzioni Facebook e Twitter non mi era mai successo di collezionare 14 mila “consiglia” (la versione italiana del “like”) per un singolo pezzo. È successo con la recensione del libro Corsivo encefalogramma dell’anima scritto da Irene Bertoglio e Giuseppe Rescaldina per una piccola casa editrice (La memoria del mondo). Normalmente si tende a superare quota 1.000 solo quando si imbrocca il commento tagliente o frizzante o fuori dal coro su questioni di sesso, terrorismo jihadista, eutanasia, dibattiti Chiesa-gay, immigrazione. La mia “migliore prestazione” in termini di gradimento prima della suddetta recensione era un 10 mila like, ricevuti scrivendo di un martire cristiano contemporaneo, il sacerdote caldeo iracheno padre Ragheed Ghanni, una figura eccezionale e una storia commovente. Dunque ci deve essere una ragione profonda se un onesto articolo di recensione di un libro che difende le buone ragioni della scrittura a mano contro la scrittura a mezzo tastiera, che mette in guardia dall’invadenza delle tecnologie digitali e dai loro effetti destrutturanti sul modo di pensare oltre che sulla coordinazione mano-cervello, colleziona un gradimento al di là delle normali aspettative.

Indubbiamente c’è di mezzo l’insofferenza per l’eccesso di digitalizzazione della comunicazione fra esseri umani. C’è il senso di delusione per tecnologie che danno l’illusione di cancellare la distanza e rendere tutto fruibile, e che invece hanno reso tutto impalpabile, etereo, astratto. C’è nostalgia di concretezza, di spessore, di odori, di suoni che non siano elettronici. Tenere in mano un libro e sfogliarlo, riporlo in mezzo agli altri nel mobile della libreria, tornare a cercarlo aiutandosi con la memoria dà sensazioni che scorrere una ditata dopo l’altra le pagine di un testo su di un tablet o un e-book dopo averlo caricato da un elenco di titoli non darà mai, nonostante la comodità e le tante utili funzioni di questi strumenti che ci risparmiano gli sforzi della memoria. Chi ha più di 50 anni ricorda pure l’odore, la densità tattile e i colori dell’inchiostro, le forme e i rumori dei pennini, materiali con cui si scriveva (in bella calligrafia) tanto quanto si facevano pasticci. Con l’introduzione delle penne a sfera sono scomparsi gli odori, con la sostituzione di queste ultime con le tastiere è scomparsa anche la possibilità di fare pasticci, a meno che non si faccia cadere il caffè sui tasti.

Fabrice Hadjadj direbbe che è scomparsa la tecnica, che è un saper fare, ed è stata sostituita dalla tecnologia, che è attività pulsionale in due distinti sensi: è tutta un pigiare pulsanti che permettono di ottenere quello che vogliamo senza lo sforzo del saper fare tecnico, senza affrontare veramente la realtà e la sua resistenza ai nostri scopi; ma è pulsionale anche nel senso che ci rende schiavi delle nostre pulsioni, rimuove razionalità e moralità e lascia tutto lo spazio così creato alle emozioni, che non possono più essere ordinate e quindi finiscono per dominarci. E questo vale non solo per la scrittura e la comunicazione in generale. Il tema diventa il nostro rapporto con la materialità delle cose, la perdita di abilità e le conseguenze sia pratiche che gnoseologiche e morali della cosa.

«L’azienda specializzata in ricerche su internet AGI/AVG ha dimostrato che i bambini di oggi sono in grado di scrivere al PC, navigare su internet, utilizzare il cellulare, ma non sanno allacciarsi le scarpe in autonomia (solo l’11% lo sa fare) o andare in bicicletta», scrivono Bertoglio e Rescaldina nel loro libro. Ma il problema non riguarda soltanto i bambini: in noi adulti c’è il senso di frustrazione di non avere imparato a usare le mani con la stessa abilità di babbo e di mamma, del nonno e della nonna. Quello che loro facevano con cacciavite, raspa, ago e filo, zappa, cesoie, forbici, martello, bulloni, seghetto, chiave inglese, o semplicemente con le mani impastando farina e altri alimenti, la maggior parte di noi non sa farlo. Non è un problema meramente pratico, né di semplice nostalgia della nostra infanzia. Spiega lo scrittore irlandese John Waters in un bell’articolo apparso sul mensile Tracce del maggio scorso: «Per i nostri nonni, i sensi erano fondamentali non solo per il loro quotidiano coinvolgimento fisico con le cose, ma anche per i loro pensieri: quello che pensavano e sapevano veniva dal loro modo di stare nel reale, da ciò che toccavano, vedevano eccetera. Noi, invece, siamo stati allontanati dalla realtà; la nostra conoscenza ci arriva di terza o di quarta mano. La tecnologia ci dà l’illusione di manipolare la realtà, ma si tratta di una manipolazione sempre più remota, nella quale i sensi si stanno rapidamente atrofizzando». Sì, non è una questione di nostalgia, è la sensazione che noi non conosciamo e non capiamo la realtà perché ci è venuto a mancare un tipo di rapporto con la stessa che i nostri genitori avevano, e noi e i nostri figli no. E infatti Waters prosegue: «Io raccomando calorosamente la lettura di uno scrittore americano che si chiama Matthew Crawford, autore di The Case for Working With Your Hands. In Italia è uscito come Il lavoro manuale come medicina dell’anima (…). Il suo tema dominante è l’idea che la libertà e la ragione umana risiedano idealmente in un “io situato”, che la piena realizzazione dell’uomo avvenga nell’interazione col mondo, con la specificità degli oggetti e dei contesti, mediante abilità come la meccanica, la falegnameria, la scultura, eccetera. Quindi, lui sostiene che col declino della manodopera qualificata sia andato perduto qualcosa di fondamentale. Anzi, secondo lui la perdita della ragione nella nostra epoca si è radicata proprio nel distacco dalla realtà che caratterizza la maggior parte dei lavori».

Sono d’accordo con Waters e con Crawford: la perdita della ragione nella nostra epoca (il relativismo, lo smarrimento del buon senso, il venir meno di certezze condivise, il sentimentalismo, l’emotivismo) si è radicata nel distacco delle persone dalla realtà materiale. Per una ragione semplice e fondamentale: per conciliare la natura delle cose con i nostri scopi umani, occorre riconoscere le leggi delle cose e agire sulle stesse in conformità con quelle leggi. Occorre riconoscere che non si cava sangue dalle rape e che non si raddrizzano le gambe ai cani, cioè le cose non rispondono ai nostri capricci o alle nostre manie di grandezza: rispondono alle nostre richieste solo se la loro struttura intrinseca le predispone a ciò. Intervenire sulle cose con le nostre mani e con quel prolungamento delle nostre mani che sono gli attrezzi di lavoro ci fa riscoprire che c’è una verità delle cose che ci precede, che non è prodotta da noi; che ci sono norme che non abbiamo deciso noi e alle quali non possiamo fare a meno di conformarci.

La diffusione della tecnologia e dei prodotti tecnologici ha fatto venir meno questo genere di esperienza; in tutto l’Occidente sembra che le popolazioni autoctone (con ristrette eccezioni) rinuncino ad essa e la riservino agli immigrati. In parallelo, la ragione collassa e le evidenze della realtà si annebbiano o sprofondano nell’oscurità. Perciò sì, il lavoro manuale è medicina dell’anima ai giorni nostri, è medicina per guarire la ragione malata. E mi viene di fare una proposta. Si conclude in questi giorni la stagione delle vacanze comunitarie di parrocchie, movimenti ecclesiali, associazioni benemerite. Lodevolmente queste iniziative non si limitano a offrire riposo e divertimenti, ma fanno del tempo libero l’occasione di un’educazione, centrata sul fare incontrare a chi partecipa alla vacanza il vero, il bello e il buono. Per quanto riguarda il bello e il buono, le cose vanno benone: l’incanto dei luoghi e gli incontri con testimoni della bellezza e della bontà come artisti, educatori, uomini e donne dei mondi della carità e dell’amore per il prossimo aiutano a far passare il messaggio. Con la verità, la faccenda è più complicata. Si rischia abbastanza spesso la verbosità, l’astrattezza, l’esibizione autoritaria, il formalismo, il conformismo paraculo, l’effetto “commissario politico” di sovietica memoria. Ma d’altra parte al rapporto con la verità non si può rinunciare, come scriveva Edith Stein (santa Teresa Benedetta della Croce): «Non accettate nulla come verità che sia privo di amore. E non accettate nulla come amore che sia privo di verità! L’uno senza l’altra diventa una menzogna distruttiva». Allora io credo che potrebbe essere di aiuto se le vacanze comunitarie prevedessero, come occasione di educazione al riconoscimento della verità, momenti di lavoro manuale guidato. I cacciaviti, gli aghi e fili, i seghetti, le raspe, le zappe, le cesoie, le forbici, i martelli, i bulloni, le chiavi inglesi a cui alludevo sopra le vorrei vedere nelle mani dei partecipanti a vacanze comunitarie. E non per produrre oggetti funzionali a giochi e intrattenimenti del momento, che dureranno una settimana e poi saranno abbandonati. Ma cose che potranno poi essere portate a casa per un uso domestico o lasciate sul posto a beneficio di chi vive lì. Sarebbe una magnifica educazione al riconoscimento della verità, della norma, della natura proprie della realtà. Realtà di cui noi stessi siamo parte.

Un amico al quale ho confidato la mia proposta mi ha chiesto: «Ma tu che dici queste cose, come sei messo ad abilità manuali?». «Male», ho risposto io. «È proprio per questo che lo propongo per le prossime vacanze comunitarie!».

Fonte: Rodolfo Casadei | Tempi.it

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