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I terroristi non sono islamici, ma la santità in guerra esiste

Da tempo ogni qual volta scoppia il dibattito dopo un attentato terroristico jihadista – e purtroppo la cosa si ripete con sempre maggior frequenza – mi sento terribilmente solo. Non mi identifico né con chi si agita perché i media e l’opinione pubblica accettino di definire l’accaduto “terrorismo islamico”, né con chi si straccia le vesti rifiutando la commistione fra religione e violenza, in quanto la violenza sarebbe il sintomo di una riduzione ideologica della religione (qualunque religione, non solo quella islamica), e quindi quest’ultima non va tirata in ballo.

Non mi identifico coi primi perché se definiamo islamico il terrorismo dell’Isis allora dobbiamo chiamare cattolico quello dell’Ira nell’Irlanda del Nord e cristiano quello dei falangisti libanesi che uccisero persone inermi a Tel al-Zaatar. Ma se lo facciamo avvertiamo subito la stonatura – a meno che non siamo detrattori del cristianesimo, disposti ad ogni acrobazia pur di parlarne male. Dal fatto che ci siano persone che perseguono l’obiettivo politico di consegnare il potere a un particolare gruppo confessionale, lo giustificano in termini religiosi e lo perseguono con la pratica dell’intimidazione violenta per sottomettere i refrattari, non deriva la conclusione che la confessione religiosa in questione sia intrinsecamente incline al terrorismo. Papa Alessandro VI fece condannare al rogo Gerolamo Savonarola accusandolo pretestuosamente di eresia: poiché la decisione fu presa da un papa e con una motivazione di tipo religioso dobbiamo concludere che il cristianesimo è consustanziale alla condanna a morte degli eretici veri o presunti?

Definire islamico il terrorismo dell’Isis, di Al Qaeda, ecc. implica il giudizio che tutti i musulmani sono terroristi in potenza: quelli che non lo sono – e rappresentano la stragrande maggioranza – sarebbero degli incoerenti o dei vigliacchi. Implica che gli stiamo chiedendo di scegliere fra l’abiura della loro religione e la sua pratica coerente, che li farebbe diventare bersagli della nostra giusta reazione. Provocarli a questo modo non mi sembra il modo migliore di tenerli lontani da eventuali tentazioni. Papa Francesco invita caldamente a non vedere in termini di guerra di religione quella che i jihadisti hanno dichiarato all’Occidente (ma anche ai governi di alcuni paesi del Vicino Oriente), e il suo è un atto di saggezza: proprio per trascinare l’Europa e il mondo in una guerra generalizzata fra musulmani e cristiani i terroristi fanno quello che fanno.

Molti mi obietteranno dicendo: «Eh no, caro, il Vangelo non invita al jihad, il Corano sì. L’islam ha un rapporto con la violenza armata che altre religioni, cominciando dal cristianesimo, non hanno. Per giustificare le loro azioni i jihadisti possono attingere a piene mani dal Corano, i cristiani violenti nel Vangelo non trovano nulla per legittimarsi». Non c’è alcun dubbio che nell’islam fede religiosa e legittimazione del ricorso alla forza anche militare sono più imbricate che in qualsiasi altra religione oggi esistente. Senza tale implicazione reciproca non sarebbe sorto il califfato degli Omayyadi, che si estendeva dalla Spagna alla Persia, né più tardi l’Impero Ottomano. Questa caratteristica però non può essere assolutizzata astrattamente, ma va collocata nella storicità delle forme politiche islamiche. Benito Mussolini volle autonominarsi protettore dell’islam dopo la proclamazione del Governatorato generale della Libia (1934), e prima di lui Francia, Regno Unito e Regno di Sardegna non avevano esitato a schierarsi con l’Impero Ottomano contro la cristiana Russia zarista nella guerra di Crimea (1853-56). Evidentemente non vedevano nell’islam un pericolo intrinseco, un nemico assoluto da cancellare, che invece le monarchie europee avevano visto nel regime politico nato dalla Rivoluzione francese e le democrazie anglosassoni vedranno poi nel regime nazista tedesco. In secondo luogo, non solo l’islam, ma quasi tutte le religioni oggi esistenti (fanno eccezione i Testimoni di Geova) giustificano il ricorso alle armi, a determinate condizioni. E qui veniamo al secondo elemento del discorso e al mio secondo motivo di dissenso.

Non ogni legittimazione religiosa del ricorso alle armi, non ogni “Dio è con noi” di teutonica e prussiana memoria costituisce una strumentalizzazione politica e una riduzione ideologica della religione. Il diritto alla legittima difesa personale e collettiva è riconosciuto virtualmente da tutte le religioni, e certamente dalla Chiesa cattolica, che nel suo Catechismo universale afferma non solo il diritto, ma addirittura il dovere, in alcuni casi, di ricorrere alle armi: «La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità» (n. 2.265). Già San Tommaso d’Aquino nella sua Summa Theologiae scriveva: «E non è necessario per la salvezza dell’anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui». La Chiesa ha in ogni paese del mondo un ordinariato militare e cappellani militari che servono le truppe: non avrebbe dato vita a queste istituzioni se giudicasse la vita militare incompatibile col cristianesimo. E non vale il discorso secondo cui i cappellani militari servono a garantire assistenza spirituale alle persone sotto le armi, ma ciò non implica un riconoscimento della liceità delle attività delle forze armate. Se le cose stessero così, se si possono distinguere le persone appartenenti ad un’organizzazione dalla liceità morale delle attività della stessa, la Chiesa dovrebbe garantire la cure dei suoi pastori anche alle bande di ladri, alle gang mafiose, ai narcotrafficanti, ecc. Lo fa, invece, solo quando gli affiliati a tali organizzazioni finiscono dentro alle mura e dietro alle sbarre di una prigione.

Mi si potrebbe giustamente obiettare che la liceità della legittima difesa proviene dalla legge naturale, che la Chiesa riconosce per la sua razionalità che deriva da Dio che è logos, e non dalla rivelazione cristiana propriamente detta, la quale invece afferma la non violenza in termini radicali: «A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica» (Luca 6,29). La riaffermazione della liceità della legittima difesa è ciò che la Chiesa ha in comune con ogni altra religione o filosofia che non contraddicono la ragione, la non resistenza al violento e all’ingiusto è invece un contenuto specifico della rivelazione cristiana, come tutte le esortazioni pronunciate da Cristo nel Discorso della Montagna. La Chiesa le ha sempre presentate come esortazioni rivolte a chi aspira a essere perfetto davanti a Dio e profetico di fronte agli altri uomini, alla stregua dei consigli evangelici (povertà, castità e obbedienza) che non sono obbligatori per tutti i cristiani, ma che sono parte della regola degli ordini religiosi e monastici.

Storicamente i cristiani (come già gli ebrei e poi i musulmani) non si sono limitati a formalizzare la dottrina della legittimazione religiosa dell’uso delle armi in certe circostanze, ma hanno pregato per il soccorso divino in battaglia, affermato che guerre e battaglie sono state vinte anche per intervento soprannaturale, ringraziato Dio per l’esito di una vicenda bellica. Il 7 ottobre si celebra ancor oggi la festa della Beata Vergine del Rosario, istituita da san Pio V per ringraziare la Madonna che avrebbe propiziato la vittoria delle armate cristiane nella battaglia di Lepanto del 1571 contro i turchi. La liberazione di Orleans dall’assedio degli inglesi nel 1429 fu vista dai contemporanei come la prova che la missione di Jeanne d’Arc era certamente divina, e così la pensarono anche le generazioni seguenti: la Chiesa annullò la condanna per eresia in base a cui era stata bruciata sul rogo a Rouen e nel 1920 la proclamò santa. All’inizio degli anni Trenta Eugenio Pacelli, allora segretario di Stato vaticano, spiegando ai vescovi messicani che la Santa Sede non riteneva opportuno appoggiare la lotta armata dei Cristeros, aggiungeva però: «La Santa Sede (…) nelle condizioni attuali non può né autorizzare né incoraggiare la resistenza armata. Nelle condizioni attuali: perché, se vediamo la storia, i Pontefici hanno più volte non solo autorizzato, ma anche promosso le crociate esterne ed anche interne, come le guerre contro i Turchi, gli eretici. È vero che si difendeva anche la civiltà; ma Pio V, che ha vinto la battaglia di Lepanto, è quello che ha fatto per la guerra contro i Turchi quello che ha fatto Pio IV per il Concilio di Trento».

Ho fatto il servizio civile, non ho esperienze militari. Ho frequentato numerosi teatri di guerra negli ultimi trent’anni ma sempre solo come testimone. Una volta però – una sola – ho provato il desiderio di imbracciare anch’io le armi e unirmi ai combattenti. È stato nell’agosto del 2014, quando mi sono ritrovato in prima linea nei giorni dell’offensiva dell’Isis contro le cittadine cristiane e yazide della piana di Ninive e del Kurdistan iracheno. L’indignazione per quello che i jihadisti avevano fatto a cristiani e yazidi, in luoghi abitati da persone che ben conoscevo per averli già in precedenza frequentati, mi faceva desiderare di rendere giustizia in prima persona a quegli inermi vittime dei violenti. Come tutti i giornalisti, sono tornato a casa al termine previsto della missione. Ma ricordo che in quei giorni guardavo i peshmerga curdi e le milizie cristiane di villaggio non come si guardano eroi impavidi che fanno qualcosa di straordinario, ma come gente comune che stava facendo il suo dovere, che adempiva al minimo etico a cui è tenuto ogni essere umano. Se fossi davvero restato lì e mi fossi unito a loro, lo avrei fatto con lo stesso spirito con cui a Milano la mattina vado al lavoro, la sera mi occupo della famiglia e una volta alla settimana faccio caritativa: con la coscienza di assolvere un compito che è dato da un Altro.

Tempo dopo tornai in Iraq e visitai il monastero siriaco ortodosso di Mar Mattai, che in quel momento si trovava a soli 4 km in linea d’aria dalla zona dei combattimenti. I suoni della guerra fecero da sottofondo sonoro all’intera giornata. Ricordo ancora le parole di Rabban Youssif, il priore del monastero cristiano più antico di tutto l’Iraq fra quelli ancora esistenti. Diceva che la presenza dei monaci in quel luogo non era un dogma: «Per riuscire a restare qui dovremmo cominciare a comportarci come fa l’Isis, e come fanno tanti altri qui da noi. Ma noi cristiani non siamo fatti per questo, non siamo fatti per la violenza e per fare scorrere il sangue». Inevitabilmente viene in mente quel che Chesterton scrive in Ortodossia: «È vero che la Chiesa ha ordinato ad alcuni uomini di battersi e ad altri di non battersi, ed è vero che quelli che si battevano erano come folgori, quelli che non si battevano come statue. Tutto questo significa semplicemente che la Chiesa ha voluto servirsi dei suoi superuomini come dei suoi tolstoiani. C’è qualcosa di buono nella vita guerresca, per cui molti uomini eccellenti hanno scelto di essere soldati; c’è del buono nella idea della non-resistenza, per cui altri hanno preferito essere quaccheri. Tutto quello che la Chiesa fece (fino al punto in cui credette di farlo) fu per impedire che una delle due cose cacciasse l’altra: dovevano esistere fianco a fianco».

Fonte: Rodolfo Casadei | Tempi.it

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