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La grande lezione su bene e libertà di Burgess, padre di Arancia meccanica

 

Il 25 febbraio è ricorso il centenario della nascita dello scrittore cattolico, a cui si ispirò il regista Kubrick

«Non mi importa niente dei pericoli, padre: io voglio essere buono, voglio essere per il resto della mia vita solamente un atto di bontà». «La questione è se questa nuova tecnica renda veramente buoni o no: la bontà viene da dentro, la bontà è una scelta. Quando un uomo non ha scelta, cessa di essere uomo».

DA BURGESS A KUBRICK. Non è un passaggio tratto da un testo teatrale di qualche filosofo esistenzialista cristiano della metà del Novecento o da una coeva opera di Albert Camus, ma una sequenza del film Arancia meccanica di Stanley Kubrick: il dialogo tra il protagonista, l’adolescente Alex (rinchiuso in carcere per rieducazione dalla violenza), e il cappellano del carcere. Non dovrebbe tuttavia apparire troppo strano il fatto che il regista newyorkese naturalizzato britannico, abbia deciso di costruire una delle scene più importanti del film, mettendo in bocca al protagonista una domanda di sapore teologico. Visto che Anthony Burgess, lo scrittore inglese al cui romanzo del 1962 (A Clockwork Orange) Kubrick si ispirò per la pellicola, e del quale il 25 febbraio è ricorso il centenario della nascita, era cattolico.

L’INFLUENZA DI NEWMAN. E contrae quindi un debito con colui il quale, con Loss and Gain (1848), fu l’iniziatore della letteratura cattolica in lingua inglese: il beato, convertito dall’anglicanesimo nel 1845, John Henry Newman. Almeno stando a quanto accenna Ian Ker, il maggiore conoscitore vivente di Newman, nel suo fondamentale The Catholic Revival in English Literature, 1845-1961. Newman, Hopkins, Belloc, Chesterton, Greene, Waugh (University of Notre Dame Press 2003). Un cattolicesimo, quello di Burgess, tutto d’un pezzo, a detta di Ker, anche se non alieno da tendenze manichee e da quella sindrome da accerchiamento, tipica di diversi cattolici d’oltremanica.

ARANCIA MECCANICA. Arancia meccanica resta l’unico romanzo di Burgess ad aver avuto larga diffusione in lingua italiana: tra le ultime edizioni, Einaudi 2014. Il fatto che invece su Kubrick continui ininterrottamente a uscire materiale a stampa anche in italiano (tra gli ultimi, Michel Chion, Stanley Kubrick. L’umano né più né meno, tr. it. Lindau 2016) è una prova evidente circa il “sorpasso” di Kubrick su Burgess in termini di notorietà. Complice anche il precedente (e tuttora insuperato nel suo genere) kubrickiano 2001 Odissea nello spazio? Può darsi. Sta di fatto che quando, nel 1971, due anno dopo 2001 (1968), uscì Arancia meccanica, i motivi del successo della pellicola furono tanti e poco riconducibili a quelli del successo di 2001: chi non ne ha sentito parlare almeno una volta nel corso di dibattiti sulla liberazione sessuale e sulla critica al ruolo dei padri? In questo senso fu l’Arancia meccanica di Kubrick a far sapere che esisteva anche quella di Burgess (e non viceversa).

ESSERE BUONI. Eppure la nozione di libertà, attorno alla quale, nella pellicola, si svolge il dialogo tra il cappellano del carcere e Alex ha poco a che vedere con una forma di libero arbitrio assoluto, di sapore anti-cristiano, alla Jean Paul Sartre: in Kubrick, il bene è una scelta non nel senso che, piuttosto che fare il bene per forza, va anche bene fare il male. Ma solo nel senso che nessuno può costringere qualcun altro a essere buono. Non è forse un caso, quindi, che il protagonista Alex decida di domandare proprio (e solo) al prete come si fa a esser buoni: probabilmente perché intuisce che non un’idea, ma solo una persona potrebbe essere in grado di operare quella conversione. Viene in mente una pagina della Grammatica dell’assenso di Newman, nella quale egli scrive di essere alla ricerca di un assenso alla verità dell’esistenza di Dio «che sia più vivido di quello che si dà alle mere nozioni dell’intelletto».

Fonte: La lezione di Burgess, padre di Arancia meccanica | Tempi.it

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