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LIBRI: Élite. Educare per i tempi bui – Meritocrazia o uguaglianza ad ogni costo?

L’idea secondo cui in ambito educativo l’uguaglianza sia dare a tutti la stessa cosa è tra le più devastanti che abbiano scosso e indebolito l’Occidente a partire dalla rivoluzione culturale del Sessantotto. Certo, per controbatterla, basterebbe un rapido cenno alla nozione classica di giustizia, così come, nei secoli, ci è stata tramandata dal mondo greco e dalla dottrina sociale cristiana, ma proprio su questo punto abbiamo assistito non solo alla confusione tra giustizia commutativa e distributiva, bensì alla loro completa distorsione in nome di un egualitarismo che vorrebbe renderci tutti uniformi semplicemente azzerando ciò che più specificamente rende ciascuno diverso dall’altro.

L’uguaglianza nelle opportunità, per quanto utopica, non ha comunque nulla a che fare con l’uguaglianza dei compiti e degli obiettivi e con la necessaria diversità di formazione che ne consegue. La sciatteria, la mediocrità, l’approssimazione che segnano la deriva delle democrazie occidentali è inversamente proporzionale alla capacità di resistenza che ciascuna di esse ha saputo dimostrare davanti all’irruzione dell’egualitarismo postsessantottino. Non è un caso che la parola élite sia oggi percepita come un insulto proprio negli ambienti scolastici e, più specificamente, in quelli della scuola di Stato, in Italia ampiamente dominanti.

È così banale chiedersi perché l’Italia, che tiene sui banchi i propri alunni, dalle scuole elementari all’esame di Stato, più a lungo di qualunque altro paese occidentale, abbia poi a lamentare una drammatica assenza di “senso civico”, oltre che, su basi regionali, di risultati scolastici appena in linea con le medie europee (dati Ocse)? Una spia del decadimento, del resto, è rappresentata, in un sistema scolastico come quello italiano che privilegia la massa sull’eccellenza, anche dall’appiattimento contrattuale dei docenti.

Nella scuola statale italiana, per esempio, non è certo un caso che i corsi di sostegno per alunni con difficoltà siano pagati 50 euro l’ora; quelli di “eccezione” (corsi di informatica, eccellenze linguistiche, specializzazioni extracurricolari) solo 35, beninteso “lordi”. Né è un caso il fatto che il Miur, per mano di dirigenti scolastici ridotti ormai a ingranaggi che trasmettono le indicazioni del sistema senza poterlo incisivamente mutare, persegua il sistematico svuotamento della didattica per contenuti a favore di una didattica per progetti (tutti calati dall’alto o omogenei a quelli calati dall’alto) e per astrattissime competenze, il tutto a spese di quella relazione, naturale perché analoga a quella genitoriale, tra docente e discente che si incontrano nella trasmissione di un sapere e della passione umana che la sostiene. Il bravo docente nella scuola italiana non è colui che sa insegnare, ma quello che si allinea ai progetti della scuola. Nel sistema scolastico, la prevalenza degli obiettivi comuni, con un denominatore comune sempre più al ribasso, su quelli individuali che cos’è, se non l’intima negazione del concetto stesso di educazione e di cultura?

Se il pilota fuma l’erba
In realtà, l’egualitarismo antielitario, ereditato dal Sessantotto, non solo ha prodotto e produce effetti devastanti sul piano sociale ed educativo, ma soprattutto è falso e ipocrita. Lo spiega, con dovizia di particolari, il bel volume di Gerd-Klaus Kaltenbrunner, Élite. Educare per i tempi bui, recentemente edito in versione italiana da Editore XY.IT all’interno della collana Antaios (110 pagine, 13 euro). Che l’egualitarismo antielitario sia ipocrita lo sa benissimo qualunque madre o padre di famiglia che desideri il meglio per i propri figli ma si veda concretamente negato l’accesso alle scuole paritarie da personaggi pubblici che, poi, mandano i loro figli in licei di lusso, spesso stranieri. I fautori della scuola di massa sono gli stessi che per i propri figli vogliono scuole di élite, che, come ovvio, non sono apertamente riconosciute come tali. Anche le nostre società democratiche vivono di élite, spesso solo funzionali, ma di cui non possono fare a meno.

Le élite sono inevitabili, meglio prenderne atto con onestà ed educarne di aperte e responsabili, cioè consapevoli. La spocchia salottiera della cultura radical chic si riempie di slogan egualitari che, però, sono costantemente smentiti dalla realtà. Citiamo, in proposito, il testo di Kaltenbrunner: «Lo conferma un gustoso aneddoto, a quanto pare autentico, di un sociologo americano, che a un giovane avversario della meritocrazia seduto accanto a lui in aereo spiegava alcune cosette della swinging airline con cui viaggiavano: niente norme severe per il personale, piloti che in cabina fumano “l’erba”, hostess sempre a disposizione. Com’è sin troppo facile immaginare l’assurda storiella gettò nel panico più totale il ragazzo, che era solito disprezzare la meritocrazia».

Piloti, controllori di volo, medici specialisti fanno parte di quell’innegabile e irrinunciabile élite di funzione di cui la società moderna ha bisogno per andare avanti e già questo basterebbe a dimostrare che democrazia ed élite non si escludono affatto. Piaccia o no, ogni comunità organizzata è dotata di un’élite. Negarlo significa solo aprire la strada ad altre élite, implicite e non fondate sul merito, ma solo sul potere economico. L’esistenza dell’élite affonda la sua ragion d’essere nell’ineludibile distinzione tra chi guida e chi è guidato. In fondo, il marxismo e i vari post-marxismi erano e sono egualitari solo in ciò che promettono, nel loro momento utopico, poiché, per arrivare al loro obiettivo, presuppongono un’avanguardia o, più esplicitamente, la guida forte di una élite politica e ideologica. Le società democratiche liberali, poi, sono egualitarie solo sul piano delle opportunità teoriche e dei diritti astratti dell’individuo, dal momento che identificano, nei fatti, l’élite dominante con le classi economicamente superiori, a cui sono subordinate anche le élite funzionali. La crisi del liberalismo occidentale, il suo decadere in “democratura”, illusione democratica all’insegna della political correctness, hanno fatto il resto.

Quel che Kaltenbrunner scrive sulla Germania, paese che vive di tecnologia e che, quindi, non può, pena la propria sopravvivenza, non prendere terribilmente sul serio la necessità di formare e riformare continuamente una propria élite intellettuale, scientifica e culturale, si applica, in realtà a tutto l’Occidente, Italia compresa, laddove, appunto, almeno a partire dal Sessantotto, tutto il sistema educativo e formativo è invece espressamente orientato in senso falsamente egualitario. Con la ripresa del concetto di meritocrazia, tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, qualcosa certamente si è mosso, ma senza scuotere i pilastri ideologici del modello antielitario. La spinta al livellamento è oggi più potente che mai e si è lasciata alle spalle l’ipocrita esigenza di conservare, comunque e almeno, delle piccole riserve di élite funzionali.

Libertà, capriccio, decadenza
L’Occidente, ci ricorda Kaltenbrunner, avrebbe bisogno di meno star e di più tipi umani consapevoli dell’esistenza come compito. Invece, il flusso della storia, pilotato dall’irresponsabile regia del Potere, va nel senso opposto. Ed è questo il “caso serio” in cui affonda l’Occidente. Il titolo del saggio, molto opportunamente dal punto di vista della lingua italiana, traduce l’originale tedesco Ernstfall, caso serio, con “tempi bui”. Riccardo Nanini, traduttore e curatore di questo testo, già noto per lavori significativi come la curatela dell’edizione italiana dell’Opera Omnia di Julien Ries, nella sua presentazione nota: «La questione delle élites (il titolo originale accosta l’educazione all’Ernstfall, il caso serio, l’emergenza, il momento drammatico atteso con timore e trepidazione in cui “il gioco si fa duro” e c’è ormai poco da scherzare; abbiamo reso il sottotitolo con “educare per i tempi bui”) resta attuale non più in funzione polemica, ma in sede di ideazione, di spunto». E forse non è davvero un caso la scelta di questo termine da parte del neoconvertito Kaltenbrunner, cui era noto il saggio balthasariano Cordula oder der Ernstfall, il caso serio di un cristianesimo che gioca tutto se stesso nella fede come ciò su cui sta o cade tutto il proprio edificio.

E il caso, in campo educativo, è davvero tragicamente serio. Troppo facile è constatare: non educhiamo più, o educhiamo troppo poco e troppo pochi. È da almeno tre decenni che in Italia, con alterna intensità, si parla di “emergenza educativa”, ma non se ne fa nulla, perché per rispondere bisognerebbe anzitutto avere il coraggio di ammettere che l’élite funzionale non basta, ma che occorre fattivamente riconoscere, anche nella società aperta, il diritto-dovere di educare a chi ne è capace e ne ha la volontà. L’illusione che siamo già a posto, che si tratta di acquisire qualche sapere “pratico”, in tanto e per quanto riconosciuto come “utile” sta ormai producendo i mostri che affollano la nostra quotidianità, quel regno della banalizzazione e della stupidità che, ormai da tempo, riempie anche le pagine di cronaca nera di giornali e telegiornali, di una gioventù non educata e di un’età anagraficamente adulta che non sa più educare ed educarsi.

Non c’è peggiore brutalità di quella che nasce dalla banalità quotidiana del male, di giovani uomini e giovani donne che scivolano nella violenza del “perché ne ho voglia”, anche tra le più strette mura familiari. La Rivoluzione francese ha preteso di insegnarci che la libertà ha come confine la libertà altrui, negando la ragione ultima per cui tale libertà esiste. La rivoluzione culturale avviata dal Sessantotto ha sostituito la voglia alla libertà, con l’unico freno inibitorio della disapprovazione dei media. Le due prospettive partono dall’errore antropologico di fondo per cui siamo giusti così, non abbiamo bisogno di essere e-ducati, portati fuori da una condizione ed elevati a un’altra, più alta e più perfetta. Eppure è proprio di educatori coraggiosi che avremmo bisogno, per poter ripartire. Senza educazione l’Occidente è finito. Per dirla con Huizinga, citato da Kaltenbrunner, «solo la commistione di un elemento aristocratico (elitario) rende la democrazia sostenibile e vitale. Se manca questo elemento, la democrazia è esposta al rischio di precipitare nella rozzezza e brutalità delle masse».

Dove la massa non ha un’aristocrazia spirituale a cui guardare, il modello diviene proprio il bruto, il rozzo, il “tamarro”, ricco o povero che sia: il secondo guarda al primo come al proprio fine e il primo si compiace solo e semplicemente di marcare il distacco dal secondo, cui è accomunato dalla propria assenza di ideali. L’oligarchia solo economica diviene oclocrazia. Il decadimento del gusto, il prevalere del kitsch, l’assenza di educazione e di percezione estetica e l’affermazione del potere in quanto mero possesso sono solo alcuni dei tratti più caratteristici della massificazione di quel che un tempo aveva ancora i caratteri di un “popolo”.

Il potere logora i diseducati
Kaltenbrunner in questo suo volumetto dimostra – ma oggi la cosa è di per sé evidente a chi voglia aprire gli occhi – che dove non si educa un’aristocrazia (letteralmente “governo dei migliori”) in forma consapevole e trasparente, si aprono spazi di vuoto per élite puramente funzionali e più o meno occulte o, per usare un’altra espressione della filosofia politica classica, per delle oligarchie. Non per nulla l’ultima parte di questo interessantissimo volumetto è proprio dedicata alle società segrete e semisegrete, vale a dire ai soft power, che condizionano, guidano e pretendono di determinare la nostra esistenza sociale.

Si badi che in questa gradevolissima opera di Kaltenbrunner (è nata da conferenze e dialoghi radiofonici) non c’è alcuna nostalgia per la vecchia aristocrazia feudale, che ha, ovviamente, fatto il suo tempo. Non c’è nemmeno il rifiuto aprioristico e ideologico del potere. Semplicemente si sottolinea come al potere e al suo uso si debba e si possa essere educati (e come ci sia popolo solo se c’è educazione del popolo). Le vie di uscita che Kaltenbrunner indica non sono certamente le uniche, ma sono un punto di partenza con cui è utile e doveroso confrontarsi.

Fonte: Kaltenbrunner e l’elogio dell’élite | Tempi.it
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