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Amore o controllo? (Non siamo cannibali)

Cronache durissime ci ricordano un bivio decisivo  
Se un uomo strangola e brucia la sua fidanzata, perché lo aveva lasciato, non è pazzo, ma lucidissimo: il contrario dell’amore è il controllo, che si mostra con la maschera dell’amore, ma dell’amore non ha l’essenza, cioè il dono di sé perché l’altro abbia vita, ma il contrario: la distruzione dell’altro perché io abbia vita.

Molti giornali e commentatori di fronte a ripetuti fatti di cronaca continuano a snocciolare la solita litania delle turbe psichiche. Ma qui in gioco non c’è nessuna distorsione della psiche, se non come conseguenza di una distorsione più radicale, perché più profonda: una frattura spirituale. L’unica cosa reale di questa vita è l’amore, reale perché amando diventiamo reali e facciamo diventare reale ciò che amiamo. Senza amore tutto tende al nulla e alla distruzione. La creazione c’è perché è l’amore di Dio gratuito che si riversa sulle cose, Dante dice nei primi tre versi del Paradiso: «La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra e risplende / in una parte più e meno altrove», questa penetrazione e illuminazione da dentro di ogni cosa e persona ha gradi, e nelle creature libere dipende dalla volontà di ricevere questo amore.

Chi non lo vuole perde realtà, si annulla e annulla chi gli sta attorno. All’estremo opposto del Padre che dà la vita ai suoi figli facendosi cibo per loro, Dante pone all’inferno un padre che mangia la vita dei suoi figli, trasformandoli in cibo, il conte Ugolino. Il cannibalismo di Ugolino ci fa inorridire, ma è quanto facciamo tutti i giorni con i nostri atti di asservimento della vita.

Chi strangola e uccide una donna, mi riferisco sia a Sara sia a Karen, sia a tutte le altre donne vittime di queste azioni apparentemente folli, non è pazzo ma lucido portatore della corruzione dell’amore: tu esisti per me, come se ti avessi dato io la vita. Tutte le volte che, nella vita quotidiana, noi controlliamo l’altro o lo carichiamo delle nostre aspettative, un po’ lo strangoliamo, un po’ lo bruciamo. Tutte le volte che invece ci diamo all’altro, senza annullarci, ma anzi dandogli proprio quella ricchezza che siamo, c’è più vita, nell’altro e in me.

Attribuire questi fatti a patologie psichiche, in alcuni casi di certo determinanti, nella maggior parte è l’interpretazione tranquillizzante per noi: è pazzo (categoria psichica), quando in realtà è solo malvagio (categoria spirituale che si mostra anche con atti “folli”). Nell’uomo c’è una radice di male che si manifesta come distruzione, togliere vita alle cose e alle persone per nutrirsene, in un delirio di onnipotenza che si illude di essere padrone della vita. Baudelaire diceva che l’unico problema che l’uomo deve affrontare è quello del peccato originale e così demoliva l’ideologia del buon selvaggio di Rousseau, convinto che una «buona educazione» avrebbe mantenuto o reso di nuovo buono un uomo corrotto dalla società.

Per essere buoni non basta una buona educazione, ma ci vuole la grazia («Perché mi chiami buono? Uno solo è buono, il Padre mio» dice Cristo persino di sé al giovane ricco, che si riteneva «buono» perché faceva cose buone, come tanti «giusti» che non avevano bisogno di conversione). Nell’uomo, risanato dalla grazia, però si fa strada anche il bene, che consiste nel dono di sé, che nutre la vita degli altri: perché la vita è fatta per essere servita, non per essere asservita. Cristo lo ribadisce e lo mostra: in lui regnare è servire. E lo stesso vale per noi: il Regno si diffonde e trionfa dove noi serviamo gli altri, dopo essere stati riempiti della vita di Cristo, attraverso i sacramenti. Servire quelli che capitano nello spazio dei metri quadrati a me adiacenti e nel tempo delle mie ventiquattro ore: familiari, partenti, amici, colleghi di lavoro… Da insegnante se non servo i miei alunni e le loro vite, faccio della misericordia una chiacchiera vana.

Da scrittore se non servo i miei lettori con una pagina bella e vera, faccio della misericordia una chiacchiera vana. Ogni lavoro e ogni occupazione ha la sua misericordia, che è “ampliare” la vita degli altri, dopo essere stato “ampliato” dalla vita di Dio. Oggi puntiamo tutto sull’allungare la vita, perché vogliamo essere immortali, e potremmo invece provare ad allargare la vita, servendola e non soggiogandola, costruendola a nostro piacimento, caricandola di aspettative narcisistiche. Lo dico spesso alle mie alunne: non accettate mai relazioni basate sul controllo. Magari all’inizio vi fanno sentire protette e amate, altrimenti non si spiega perché ve ne lasciate attrarre, ma dell’amore hanno solo la maschera. E questo non vale solo per le azioni “mostruose”, ma per le azioni quotidiane in cui, dietro una maschera, si nasconde il potere sottile che vogliamo esercitare sugli altri.

E a quelle stesse ragazze dico: non esercitate la vostra femminilità come controllo, non usate il vostro corpo come strumento di potere. Una cultura senza Dio precipita nella corruzione spirituale dell’amore, che è il controllo, proprio perché l’amore è l’unica cosa che ci serve a vivere. Se non è l’amore che donandosi libera, inevitabilmente precipita nel suo polo opposto, l’amore che controllando lega. Entrambi i tipi di “legame” vogliono l’infinito, ma mentre il primo crea cose nuove, il secondo distrugge quelle esistenti. Sta a noi scegliere che tipo di amore vogliamo.

Fonte: Alessandro D’Avenia | Avvenire.it

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