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Trieste: italiana sì, ma non soltanto

Trieste l’irredenta. Trieste l’italianissima, terra di eroi pronti a morire pur di combattere con la divisa italiana anziché austroungarica… Questo l’alone che confusamente ci portiamo dietro dai ricordi scolastici (Trento e Trieste…) intrisi di commosso amor patrio.
Ma storicamente quanto c’è di vero? È retorica post bellica o realtà? Quale popolazione nel 1914 abitava la città austriaca? Che lingua vi si parlava? Quanti triestini aspettavano l’arrivo dell’Italia e quanti erano fedeli all’imperatore? Insomma, «liberare» Trieste e farla italiana era un diritto fondato o un’avventata prevaricazione?

A cent’anni dalla Grande Guerra, la mostra «Due fronti, una città» sgombera sentimenti di parte o visioni deformate dalla storia successiva, raccontando con una scenografia di impatto e tanti documenti inediti una Trieste sorprendente, economicamente floridissima, così vicina al Paese confinante (l’Italia), eppure per molti versi così lontana.

A cominciare dalle date: qui non si parla di «’15-’18», qui «si è in guerra dal 2 luglio 1914 – sottolinea lo storico Lucio Fabi, curatore della mostra – giorno in cui dal mare arrivano in città le salme dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando e della moglie Sophia», uccisi a Sarajevo. A quei tempi Trieste è la seconda città dell’Austria dopo Vienna, la terza dell’Impero, il primo porto dell’Adriatico. Multietnica e pluriconfessionale, conta 250mila abitanti ed è in piena espansione edilizia e finanziaria, con cantieri e industrie che danno lavoro a decine di migliaia di operai, molti dei quali immigrati dall’estero, soprattutto dal confinante Regno d’Italia (friulani, veneti, meridionali, chiamati quindi «regnicoli»).

Il censimento del 1914, però, riserva il primo colpo di scena: in questa Trieste austro-ungarica, quasi i tre quarti della popolazione parlano italiano (un quarto sloveno e una minima percentuale tedesco e croato). Così è scritto in italiano il manifesto originale con cui si annuncia il doppio omicidio («Per il lutto gravissimo invito i cittadini ad esporre le gramaglie alle case nei tre giorni dei funerali», firmato «Il podestà Valerio»). Nelle 4 lingue è invece l’esemplare – rarissimo – con cui nel maggio 1915 Francesco Giuseppe comunica che l’Italia ha dichiarato guerra e da quel giorno è il nemico («Ai miei popoli» è il titolo). E non sorprende nemmeno che l’italiano sia la prima lingua nel manifesto che annuncia la morte dello stesso imperatore nel ’16. D’altra parte al governo della città è eletto sempre un podestà italiano, espressione della borghesia italiana, parte preminente della popolazione.

Come affronta allora la guerra una città su due fronti, in bilico tra due Stati, con i suoi cittadini che combattono per entrambi? «I triestini arruolati nell’esercito asburgico sono 50mila – risponde lo storico –, subito sballottati sui diversi fronti del conflitto» (i caduti sono sepolti fin nei cimiteri di guerra di Galizia, Polonia, Ungheria e Ucraina), «invece gli irredentisti che fuggono illegalmente in Italia per arruolarsi con quella che sentono come la patria sono un migliaio», eroi per la storiografia italiana, traditori da impiccare per quella asburgica. «Sono un numero altissimo – precisa Fabi –, perché disertare era un atto coraggioso, che esponeva a un rischio totale».

Sono sempre i documenti a incuriosire e dimostrare i fatti: da una parte i volumi con le centinaia di triestini decorati dall’Austria per il valore militare, dall’altra il severo registro dei disertori fino al 1918 («Berlot Rodolfo, cuoco marittimo, disertore il 26/1/17. Craglietto Corrado, meccanico, fuggito nel trasporto da Graz…». Una riga è tirata sul nome del disertore Zarl Carlo, fonditore: «arrestato»). Interessante scoprire che, a differenza di quanto si potrebbe pensare, i mille irredentisti «erano l’ala progressista», idealisti che nella guerra vedevano l’occasione per cambiare una società ingiusta.

Va da sé che, con l’ingresso dell’Italia in guerra, a Trieste gli italiani se la vedano brutta, aggrediti dalla minoranza slovena e anche dal proletariato socialista (austriaco e italiano insieme): come scrive nel suo temino Anna Castellaz, diligente scolara, il 27 maggio 1915, «la statua di Giuseppe Verdi la ànno spezzata, il Caffè di Chiozza lo ànno incendiato, il Piccolo lo ànno bruciato. Questa gente ànno fatto bene!». A causa del nuovo fronte, infatti, improvvisamente Trieste si trova vicinissima ai combattimenti ma molto lontana dai rifornimenti, cadendo così in uno stato di fame e miseria da cui non si riprenderà più del tutto.
Non se la passano bene nemmeno i «regnicoli», radicati per lavoro (oggi diremmo «immigrati economici») in un Paese diventato di colpo il nemico numero uno. Anche questa è una vicenda tutta triestina, inconcepibile altrove: «Almeno 32mila furono espulsi, rimandati in Italia con le loro famiglie». Andò peggio ai 15mila che rimasero, «internati in lontani campi di prigionia dell’impero, che anticipano l’esperienza dei lager della seconda guerra mondiale, insieme a centinaia di uomini e donne della borghesia italiana, sospettati dalla polizia austriaca di simpatizzare con il nemico».

Il resto lo fa la guerra, che sottopone Trieste a una lunga agonia. Stupiscono allora le tante locandine (in italiano!) che imperterrite reclamizzano operette e concerti, in realtà spettacoli organizzati per raccogliere fondi per i tanti orfani. Alla fine della guerra, la Trieste annessa al Regno d’Italia sarà l’ombra di se stessa, con industrie e cantieri distrutti e la città tra l’incudine e il martello: con la dissoluzione dell’impero asburgico non è più snodo economico con il retroterra, ma rispetto all’Italia è troppo periferica.

Nel 1921 il censimento descrive una demografia in pochi anni cambiata, con il 92% di italiani e l’8% di sloveni, ma la città è scossa dalle scorrerie dei nazionalisti slavi e reazioni italiane, in pratica già scontri tra protofascisti e comunisti, «anticamera del futuro Trst je naš!», Trieste è nostra, il grido con cui Tito il 1° maggio 1945 occuperà la città per 40 giorni, ormai in tempo di pace, facendo strage di italiani.
Allestita nell’arioso Salone degli Incanti, ex pescheria costruita dall’Austria con la luminosità di una cattedrale («Santa Maria del Guatto» l’hanno sempre chiamata i triestini, giocando sul nome di un pesce poco pregiato), la mostra racconta una storia poco nota, attraverso lettere dal fronte, fotografie, diari, armi, persino mille pregiati soldatini di piombo e di latta della collezione Luisi. Tra le tante storie spicca l’incredibile odissea di 300 soldati italiani che, pur di uscire dalla Russia ormai bolscevica, intraprendono un avventuroso viaggio fino a Vladivostok e da lì, con le barche, in Cina. Il loro ritorno avverrà tra mille peripezie e solo dopo il 1920.

Se oggi a Trieste si respira un’aria così diversa dal resto d’Italia, se l’atmosfera ha ancora quel che di mitteleuropeo, se la cultura è vivace e multiculturale… ma se la città vive tuttora fratture anacronistiche altrove superate da decenni, da questa mostra si esce con un perché a tutto.

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