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Deriva gender: duello Usa sul «diritto al bagno»

Ai confini della rivoluzione antropologica
 

«L’Anno della Toilet»: è il titolo eloquente e insolito di un editoriale pre-natalizio del New York Times in riferimento ad alcuni fatti del 2015, quando «il privato diventa parte del dibattito pubblico riguardo l’accettazione, l’inclusione, il doppio standard e l’eguaglianza». L’accesso al bagno in un luogo pubblico, secondo l’editorialista, equivale infatti a un «benvenuto, tu puoi entrare qui, non sei obbligato a cercare altrove», e quindi, per esempio, ogni volta che un transgender donna – cioè una persona nata maschio ma che è in transizione verso una nuova identità femminile – può usare il bagno delle donne sta ricevendo il messaggio «sei accettata come donna» (e analogamente per transgender uomo, nella transizione opposta).

È bene ricordare che la parola «transizione» nel contesto transgender non indica un percorso preciso da un sesso a un altro, con un inizio e una fine stabiliti con esattezza, da uomo a donna e viceversa: in una transizione ci possono essere solo cambiamenti di tipo sociale – ad esempio modifiche del nome e dell’uso del ‘lei’ o ‘lui’ – o anche medici, a seconda delle scelte dei singoli (dai trattamenti ormonali a quelli chirurgici, che possono essere di diverso peso e grado di reversibilità, a seconda delle opzioni personali). I n altre parole, la transizione non sottintende un modello binario maschio-femmina, dove solo due sono le identità definite e possibili di partenza e di arrivo. Una transizione quindi non include la ricostruzione dell’apparato genitale riproduttivo secondo un sesso di riferimento, ma significa una ‘non conformità’ del proprio genere rispetto al sesso assegnato alla nascita, che può riguardare diversi aspetti della persona, non necessariamente tutti: dai comportamenti al nome, al modo di vestire, fino a vari gradi di mutazioni del proprio corpo, ottenuti per via farmacologica o chirurgica. L’uso dei bagni nei luoghi pubblici a seconda del genere in cui ciascuno personalmente si identifica acquista quindi un grande valore simbolico: è il riconoscimento istituzionale della percezione soggettiva di sé come uomo, donna o altro ancora, indefinito, a prescindere addirittura anche da quanto le stesse istituzioni registrano (cioè nome e sesso assegnati alla nascita). Potremmo dire che il dato anagrafico e quello biografico-biologico della stessa persona non necessariamente coincidono, ma possono coesistere legalmente anche se ‘non conformi’ fra loro.

Negli Stati Uniti è proprio la guerra sull’uso del bagno a segnare il nuovo confine della rivoluzione antropologica. Il Dipartimento del Lavoro, organo del governo statunitense, la primavera scorsa ha emanato linee guida per l’accesso al bagno dei lavoratori transgender. Il principio è semplice: tutti i lavoratori devono poter accedere ai bagni secondo la propria identità di genere, e cioè «una persona che si identifica come uomo deve poter usare il bagno per uomini e una che si identifica come donna quello per donne», senza dover esibire documenti di tipo medico o legale che attestino alcunché. Basta la parola. Negare tale accesso – specificano le linee guida – significa discriminare il lavoratore in base al suo sesso, violando il «Civil Rights Act» del 1964, e tutto questo a prescindere dal fatto che si sia sottoposto o meno a qualsiasi procedura medica, chirurgica o ormonale: è sufficiente la percezione di sé.

Ma la guerra dei bagni è in corso da tempo nelle scuole americane, e in diversi Stati – fra cui California, Washington, Colorado, Connecticut, Massachusetts, New York – ci sono già riconoscimenti per quello che viene definito il «diritto al bagno» di studenti transgender, cioè adolescenti in transizione. A una scuola nell’hinterland di Chicago, per esempio, le autorità federali a novembre hanno dato un mese di tempo per risolvere il problema di un ragazzo che si identifica come ragazza e che come tale è trattato a scuola – femminili il primo nome e il pronome con cui viene chiamato, anche nel passaporto, con trattamenti ormonali cui si è sottoposto –, che però nell’ambito delle attività sportive scolastiche non aveva accesso ai bagni e agli spogliatoi femminili comuni ma a locali riservati esclusivamente alla sua persona. Il distretto scolastico, in nome del diritto alla privacy di tutte le studentesse, ha riferito che lo studente transgender avrebbe potuto utilizzare gli spogliatoi femminili, ma solo dietro una tenda. Il transgender, a sua volta, si è dichiarato disposto a utilizzare la tenda ma, supportato dalle autorità federali, ha precisato che l’avrebbe fatto esclusivamente su base volontaria e non se obbligato. Secondo le autorità competenti, una ‘segregazione’ di persone transgender in ambienti appositamente riservati – sarebbe questo il caso – determina una vera e propria discriminazione basata sul sesso in base agli «Educational Amendments», che rischia di far perdere alla scuola i fondi federali.

Il fatto è stato ampiamente riportato dal New York Times, che ha letteralmente abbracciato la causa transgender fatta propria in questi anni dall’amministrazione Obama, paladina del ‘diritto al bagno’ (e non solo) dei transgender nei luoghi pubblici, dalle prigioni alle scuole. Non sono mancate le proteste: nella Hillsboro High School, in Missouri, nel settembre scorso un centinaio di studenti ha manifestato pubblicamente davanti alla scuola in nome del diritto alla propria privacy, opponendosi al fatto che uno studente maschio, che si identifica come donna da un anno, potesse utilizzare bagni per femmine.
Ancora più significativi i fatti di Houston, dove in novembre con il 61% dei voti, è stata respinta un’ordinanza del sindaco della città – una donna lesbica al suo terzo mandato – che in nome della lotta alla discriminazione di alcune categorie di cittadini promuoveva anche l’uso dei bagni ai transgender secondo l’identità percepita anziché il sesso biologico. Il provvedimento era stato approvato dall’amministrazione comunale nel maggio precedente, incontrando subito una fortissima resistenza da gran parte della popolazione, che pure aveva confermato ancora una volta la propria fiducia al sindaco. Mentre i sostenitori rivendicavano l’utilità dell’ordinanza, uguale a quella già in vigore in tante altre città americane, si è formato un pugnace comitato di oppositori in nome della sicurezza delle donne.

«No Men in Women’s Bathrooms» (nessun uomo nei bagni delle donne) è il concretissimo slogan stampato su cappellini, magliette e cartelli che ha campeggiato per mesi in città, a sostegno della tesi – realistica e convincente – secondo cui con provvedimenti di questo tipo qualunque molestatore può entrare nei bagni delle donne mettendone a repentaglio la sicurezza in ogni luogo pubblico, dai bar ai cinema, dagli alberghi agli uffici, e via dicendo. Ne è nata una campagna durissima, con tratti anche di surreale comicità, a partire dai nomi usati: se i sostenitori indicavano il provvedimento con l’acronimo Hero (eroe, «Houston’s Equal Right Ordinance»), gli oppositori si sono riferiti a esso per tutto il tempo con l’espressione «l’ordinanza del gabinetto». E quando i sostenitori hanno giocato quella che doveva essere la carta vincente – se non passa l’ordinanza, a Houston nel 2017 niente Super Bowl, la finalissima del football americano – uno dei capi dell’opposizione ha prosaicamente ribattuto che se il commissario della National Football League avesse escluso Houston come sede del Super Bowl «perché non vogliamo gli uomini nei bagni delle donne allora vuol dire che abbiamo bisogno di un nuovo commissario». Ma i risultati nella cittadina texana non devono trarre in inganno: il simbolico ‘diritto al bagno’ sta dilagando, con tutto quel che implica, soprattutto dopo la sentenza della Corte Suprema che ha sdoganato il matrimonio gay nella federazione americana. Era giugno dello scorso anno, ma sei mesi sono stati più che sufficienti per arrivare sino a questo punto.

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