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Altro che terzo genere: i ragazzi hanno dubbi perché sono ragazzi

Chi è padre o madre sa cosa si prova ascoltando i propri figli giocare con gli amici, e sentirne alcuni dire «da grande, se troverò mai un lavoro…». Un gelo morde lo stomaco, un misto di rabbia e senso di colpa e voglia di gridare «ti risolverò tutto io, come quando eri piccolo e sbattevi forte contro lo spigolo, e io picchiavo lo spigolo, lo sgridavo e tu ridevi, e ti sentivi vendicato». È terribile guardare i ragazzi – perché mica siamo genitori solo dei nostri, ma un po’ di tutti quelli che girano intorno a loro – e capire che non pensano neanche di capovolgere il mondo, come è obbligatorio credere a sedici anni. Credo che per avere voglia di farlo sia necessario avere alla spalle una casa ferma e salda dalla quale partire – per contestarla, ovviamente, come fanno tutti i ragazzi da che mondo è mondo – e alla quale tornare dopo avere fatto un po’ di stupidaggini. Perché si possa tornare evidentemente serve che la casa ci sia ancora, che i genitori siano rimasti, dimostrando con la loro vita che si può anche restare, costruire una cosa che ci supera nel tempo e forse persino nelle intenzioni.

A me sembra che la diffusa mancanza di speranza, e non solo per quanto riguarda il lavoro, sia la priorità in questa parte dell’Occidente stanco e vecchio e senza figli, che per ripartire deve mettere in cima alla lista la scuola, e prima ancora la famiglia, cioè i due luoghi in cui formare piccoli leoncini capaci di sbranare questo futuro così minaccioso. Perché lo facciano devono avere gli strumenti culturali e un’affettività ordinata. In sintesi un’educazione, cioè la capacità di orientare rettamente e liberamente la coscienza rispetto ad alcuni punti di riferimento assoluti.

La famiglia è un posto veramente rivoluzionario, l’unico posto al mondo in cui il gioco non è a somma zero, quello in cui io vinco se tu perdi. È invece un posto dove o perdiamo o vinciamo tutti, e vinciamo insieme. È l’unico che ci capiterà di frequentare nella vita, che sia fatto così. Un posto che funziona se maschi e femmine fanno le loro parti, diversissime e complementari e ugualmente dignitose. È però fin troppo chiaro che della famiglia non importa niente né alla politica né a chi detiene l’informazione. La fiscalità per esempio è pensata per dissuadere i temerari dal fare figli, e comunque è nettamente a favore dei conviventi rispetto a chi prende un impegno stabile: tanto per dirne una io e mio marito, sposati prima in chiesa poi, tredici anni dopo, in comune, da coniugi abbiamo perso gli assegni cosiddetti familiari, e infatti ci sono sempre più persone che si separano per finta (da conviventi non si sommano i redditi).

Ma quello che secondo me è molto più pericoloso è il lavoro culturale che viene fatto contro la famiglia, raccontata sempre o come luogo di angoscia e costrizione o violenza, oppure un posto noiosissimo, magari secondo certi stereotipi cattolici tristanzuoli e deprimenti. Si dovrebbe dire che è anche un posto dove è faticoso stare, certo, ma ne vale la pena, ed è frutto di un eroismo quotidiano divertente e creativo. È un lavoro su di noi, una scelta, una consapevolezza, una decisione.

Credo che nemica della famiglia sia anche l’ideologia gender in senso lato, che propone un’antropologia, cioè un’idea di uomo privo di condizionamenti di ogni genere, anche biologici, un individuo quindi apparentemente libero, nella realtà dipendente solo dai propri impulsi, che nella società iperemotiva, spontaneista e pansessualista in cui viviamo lo inducano a soddisfare le proprie pulsioni senza alcun senso del limite, del vincolo, del legame. Uno dei limiti che abbiamo, per esempio, è che nasciamo maschi o femmine, tendenzialmente con due braccia e due gambe, di certo senza ali né branchie. Abbiamo una natura limitata. Non è qui la sede per parlare del limite come di qualcosa che ci custodisce, perché questo interpella una visione di fede che non riguarda tutti. Di certo il maschio e la femmina che ne vengono fuori sono abbastanza superflui l’uno all’altra, intercambiabili su tutti i campi e i fronti (a che serve sposarsi, allora?).

Comunque questo uomo unisex è evidentemente funzionale a un modello economico fondato su un (neo)individualismo liberista (in Usa ci sono finanziamenti pubblici dai big della finanza, prese di posizione di Goldman Sachs e JPMorgan…). Ciò fa sì che rispetto alla reale, e sottolineo reale, diffusione di certi fenomeni, i temi lgbt abbiano una predominanza incredibilmente esorbitante nel campo dell’informazione. La vulgata vuole che sia per compensare le discriminazioni. Non è d’accordo Papa Francesco, che paragona «la propaganda lgbt nelle scuole ai campi di rieducazione delle grandi dittature del Novecento», con «metodi da gioventù hitleriana». Sono parole molto molto pesanti, soprattutto se dette dal Papa del «chi sono io per giudicare» rimbalzato su tutte le testate mondiali, a differenza del paragone delle lobby lgbt con Stalin e Hitler, taciuto da tutti. Nessun giudizio su nessuna persona, ma condanna pesantissima – se l’avesse fatta Ratzinger sarebbe finito al rogo – sulle lobby, sulla propaganda, sulla predominanza mediatica.

Il potere delle lobby per me è evidente soprattutto nella loro capacità di mettersi sempre come priorità in cima all’agenda, con esiti talora inquietanti talora, per me, esilaranti (il grado zero della comicità per me è la definizione di cisgender, «persona che identifica il proprio genere con il sesso biologico di nascita». Cioè in pratica quel particolare esemplare di uomo che si sente un uomo). Per manipolare la realtà – i maschi sono maschi, le femmine femmine – serve anche una neolingua, evidentemente. E serve anche cambiare le scalette, i sommari, gli ospiti da invitare, le sceneggiature dei film.

A volte trattare con temerarietà temi molto delicati: ho trovato davvero imprudente proporre senza contraddittorio medico il pezzo sulla clinica olandese dove si somministrano ormoni a ragazzi che «soffrono di disforia di genere», proprio a partire dall’età che ha il mio figlio numero due. La realtà è che intorno a questa età i ragazzi non sanno neanche loro cosa sono, non sanno manco da che parte stanno girati, dice un mio amico, grande educatore. I ragazzi non hanno dubbi perché sono disturbati, hanno dubbi perché sono ragazzi. È la loro ragione sociale, il loro core business in quel periodo della vita. Sono appena stata in Olanda a presentare la traduzione di due miei libri, e tra parentesi proprio col suddetto figlio dodicenne, rimasto come me molto colpito dalla ricchezza e dalla quantità di attività commerciali, spropositate alle dimensioni del piccolo paese in cui eravamo, Hertogenbosch. Siamo stati ospiti di un collega giornalista, al quale abbiamo chiesto ragione di questo. «Siamo un popolo di mercanti, noi, sappiamo fare solo questo». I suoi otto figli tutti laureatissimi e la conversazione a tavola in circa sei lingue mi dicevano il contrario, nondimeno credo che non sia un caso che l’Olanda, terra di mercanti, sia all’avanguardia – o a seconda dei punti di vista, fanalino di coda – nel mondo sui temi dell’eutanasia anche infantile, la manipolazione della vita, l’aborto, le tematiche lgbt. La vecchia regola del follow the money spiega sempre, se non tutte, molte cose.
Fonte: Corriere della Sera.it

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