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La verità sulla “194 quarant’anni dopo” la racconta solo Paola Bonzi

Un’inchiesta del Fatto quotidiano alla Mangiagalli di Milano cerca di farci credere che la legge sull’aborto è inapplicata a causa dei consultori “confessionali”. Come stanno, in realtà, le cose.

«In coda all’alba, in scantinati squallidi e freddi (…) La volontaria dell’associazione “pro vita” che ti parla di “omicidi”». Mentre i consultori cattolici, in crescita, incassano fior di soldi pubblici, ma mettono in chiaro che fra le loro mura la legge sull’aborto non è in vigore». Inizia così la lunga inchiesta di Millennium, il magazine del Fatto quotidiano di marzo “La 194 quarant’anni dopo: le nostre croniste cercano di abortire, tra medici obiettori e attiviste pro vita che dicono: ‘Assassina, starai malissimo’”.

La primissima parte è dedicata alla clinica Mangiagalli di Milano. Scrive la giornalista che mentre è in coda una “voce” le chiede se è convinta della sua scelta: «Dopo sarà tremendo, ti sentirai come se avessi commesso un delitto, una cosa gravissima per la tua anima», è quella di una signora che le spiega di avere abortito e che da allora non riesce a smettere di pensare all’«omicidio» che ha commesso. «Vengo così condotta al terzo piano, dove scopro che ha sede il Centro di aiuto alla vita. Mi colpisce quanto sia confortevole rispetto alla scala H dove aspettano le donne che vogliono interrompere la gravidanza: un locale ben riscaldato con divanetti il primo, un corridoio stretto con sedie non sufficienti e un freddino che obbliga a tenersi la giacca il secondo. “Non importa se tu vai d’accordo col tuo uomo o no” continua la donna, “se solo i tuoi genitori ti supportassero potresti farcela”, aggiunge una volontaria». Così «dopo qualche ora esco dalla clinica, ben istruita sulle colpe morali e con un elenco di ospedali dove provare ad andare il giorno dopo». Il pezzo prosegue poi con un attacco ai numeri dei consultori «confessionali» che lievitano il Lombardia, «con impatto sulle tasche dei cittadini visto che Regione Lombardia rimborsa comunque le visite ma con somme più alte per incontri psicologici, educativi o di gruppo (normalmente svolti nei centri religiosi) e più bassi per le visite ostetriche o ginecologiche (cuore di consultori pubblici). Risultato, in posti dove la 194 è come se non esistesse, gli assegni del Pirellone arrivano con più zeri». La giornalista si reca poi al consultorio famigliare Kolbe di ispirazione cristiana e alla fine conclude che tra obiettori e consultori religiosi si incrementano gli aborti clandestini, come le nigeriane vittime di tratta e costrette a prostituirsi che vengono rimandate a casa e rischiano la loro vita per abortire clandestinamente.

Paola Bonzi, fondatrice e prima volontaria del succitato Centro di aiuto alla vita ne ha sentite tante in 33 anni e mezzo di attività. L’associazione ha anche un consultorio familiare accreditato al 37 di via della Commenda, «ma a 200 metri dalla Mangiagalli, nei giardini della Guastalla c’è un consultorio famigliare pubblico laico, proprio qui fuori. Perché la giornalista è andata al Kolbe?».

La legge prevede che si arrivi all’ospedale per prenotare l’aborto avendo già fatto un colloquio al consultorio o dal medico che certificano l’avvenuta gravidanza e la volontà di ricorrere a ivg, che non dovrà avvenire prima di un periodo di riflessione di sette giorni. In segreteria consegnano note con esami da fare e data per presentarsi ad abortire. «La “voce” citata dalla giornalista parla a nome suo e non a nome nostro. Nessuno del Cav o del consultorio sguinzaglia volontari per “reclutare” donne in coda per la 194, e in nessun colloquio queste vengono dissuase: decidono le donne se salire e se parlare con noi, le ascoltiamo, se ci vengono riferiti problemi di ordine economico e materiale noi spieghiamo quali risposte possiamo dare. E come va a finire? Che tantissime donne che hanno obiezioni di tipo economico alla gravidanza scelgono di tenere il bambino. Da quando il Cav è stato aperto ne sono nati 21.330 e nessuno è venuto a lamentarsi dell’aiuto ricevuto. Anzi. Tra i cucchiai e il prezzemolo che le signore femministe ci lasciano davanti alla clinica per protestare ogni benedetto 8 marzo ho trovato anche un cartello, “Grazie Paola, per avermi aiutato a far nascere il mio bambino”. Nessuno vieta a una donna di abortire, nessuno in Mangiagalli. Ma dico: sarà un male aiutare le donne che invece decidono di non abortire con sostegni concreti per uscire dal ricatto economico? Io credo che sia un bene per la società».

È accaduto anche che persone scendessero dal lettino in sala operatoria all’ultimo secondo dicendo «non sono più sicura di volerlo fare», e chiedendo di essere accompagnate al terzo piano. Tutte possono poi tornare indietro, in sala oppure sui propri passi. Però essere ascoltate è la cosa che vogliono di più.

Qualche mese fa per decisione del primario Enrico Ferrazzi – che obiettore non è –, è stato promosso un piccolo gesto di informazione, la distribuzione di volantini sulle sedie della sala dell’ambulatorio (non quella che precede la sala operatoria). I volantini, anzi, dei cartoncini, dicevano solo: “Hai ancora un dubbio? Se vuoi essere ascoltato puoi recarti al Centro di aiuto alla vita”. Dopo una serie di articoli di Repubblica e proteste delle femministe li hanno dovuti togliere. La verità è che in Mangiagalli le “attiviste pro vita” come le chiama Millennium se ci sono si devono muovere in punta di piedi. «Strillano tanto per l’applicazione della 194, ebbene strillo anche io: la legge 22 maggio 1978 si chiama “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” e sappiamo tutti cosa dice, anche quando a superare le cause che potrebbero indurre la donna all’ivg. Non viene applicata perché per abortire nel primo trimestre bisognerebbe dimostrare che la gravidanza rappresenta un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, e grave nel secondo trimestre». Quanto agli aborti clandestini, «il problema principale non sono i consultori chiamati “confessionali” (a parte che si dice accreditati pubblici o privati, il nostro non appartiene a ordini ecclesiali né ad organizzazioni politiche) ma soprattutto i permessi di soggiorno, anche quelli provvisori, senza i quali non è possibile ricevere assistenza sanitaria».

E questa cosa dei soldi per prestazioni professionali? «Il mio colloquio professionale viene pagato 19 euro e 11 cent. Il nostro bilancio annuale ammonta a 1 milione 600 mila euro. I rimborsi dell’Ats ne coprono un terzo. Ma noi abbiamo oggi abbiamo in carico più di 2.500 donne e forniamo loro: colloquio mensile fino all’anno del bambino, partecipazione a gruppi di donne allo stesso periodo di gravidanza, se serve accoglienza gratuita in un alloggio per il periodo della gravidanza e dopo la nascita, corso di preparazione al parto, quando il bimbo nasce incontro con ostetrica, massaggio del neonato, gruppi bebè, colloqui mensili che negli ultimi 6 mesi diventano scuola di genitori, e a ciascuna mamma diamo magari un bel sussidio mensile che il pubblico non dà, una “borsa della spesa” e poi tutto ciò che serve al bambino, corredino, attrezzature, passeggino, marsupio, fornitura di pannolini fino all’anno di età, guardaroba fino ai 18 mesi. Un terzo i rimborsi: eccoli i soldi intascati per far funzionare la 194. Non sto qui a perdere tempo ad “istruire sulle colpe morali”: 21.330 bambini nati, e nessuno mi ha mai maledetto per averli aiutati».

Fonte: Caterina Giojelli | Tempi.it

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