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L’appello di Matteo, 19 anni, disabile gravissimo. «Dj Fabo, non andare a morire»

Non parla, non cammina, non fa nulla da solo a causa di un’asfissia alla nascita. Ma all’uomo che chiede l’eutanasia dice (sfiorando una tastiera): “Noi possiamo pensare e il pensiero cambia il mondo”

Tenere dietro alla velocità con cui la mano di Matteo vola da una lettera all’altra sulla tavoletta di legno è impossibile per chi non sia allenato come sua madre: aveva 6 anni quando ha iniziato a comunicare in questo modo con il mondo, dimostrando che dietro il presunto vegetale (così lo definivano i neurologi) c’era un’acuta ironia, e da allora è diventato un razzo. Mamma Ivana gli regge il polso e legge ad alta voce i pensieri che lui “scrive”. Ed è così che il ragazzo si presenta accogliendoci nella sua casa di Milano, zona San Siro: «Mi chiamo Matteo Nassigh, ho 19 anni e sono uno che pensa». Non c’è male.

«Anch’io ho voluto morire»

Come le antiche dattilografe, tutto guarda meno che la “tastiera”, non ne ha bisogno. Evita i preamboli perché – dice – «ho troppe cose importanti da dirle e ho paura di non fare in tempo». È lui ad aver convocato la giornalista, «l’ho cercata quando ho letto l’appello di dj Fabo, l’uomo che chiede l’eutanasia dopo che un incidente lo ha reso tetraplegico e cieco. Voglio rispondergli perché io conosco bene la fatica di vivere in uncorpo che non ti obbedisce in niente. Voglio dirgli che noi persone cosiddette disabili siamo portatori di messaggi molto importanti per gli altri, noi portiamo una luce. Anch’io a volte ho creduto di voler morire, perché spesso gli altri non ci trattano da persone pensanti ma da esseri inutili“. “È vero – continua l’appello del ragazzo – noi due non possiamo fare niente da soli, ma possiamo pensare e il pensiero cambia il mondo. Fabo, noi siamo il cambiamento che il mondo chiede per evolvere».

Pesa 25 chili Matteo, è inchiodato alla carrozzella, non cammina, non parla, non fa niente da solo… o meglio, da solo pensa tantissimo, è una fucina di idee che si accavallano, anche quando non c’è nessuno lì con la tavoletta alfabetica a tradurle in voce.

La gravidanza era andata bene fino in fondo, raccontano Ivana e Aldo, medico lei e fisico nucleare lui, poi durante il parto l’asfissia per una negligenza dei medici (in seguito riconosciuta e risarcita dall’ospedale). Dato per spacciato («ma io sono uno tosto», interrompe la mano di Matteo), invece è sopravvissuto, pur con una prognosi pesantissima e la prospettiva (risultata errata) di crescere cieco e sordo. «I miei colleghi medici erano scettici, ma con il tempo noi ci rendevamo conto che capiva tutto, che era perfino umorista… oggi posso dire che i più ottusi paradossalmente erano i più specializzati». La prima a vedere giusto è stata la fisiatra Laura Bertelé, «questo bambino ha dentro una grandissima presenza, lavorate con lui sulla comunicazione», ha consigliato ai genitori.

«Dopo vari tentativi, quando avevo 6 anni siamo arrivati alla lettoscrittura – riprende Matteo – e io ho imparato in fretta a leggere e scrivere perché avevo molto da dire ed ero stufo di non potermi esprimere ». Bisogna provare a restare chiusi nel proprio corpo per anni e dover sentire che gli altri ti credono un vegetale: «Appena ho potuto comunicare, la prima cosa che ho detto a mia mamma è stato di piantarla di vestirmi in quel modo. Ero sempre in grigio e io volevo il giallo, l’arancione».

Il problema di dj Fabo e dei tanti che la pensano come lui, asserisce, è che «vedono la disabilità come un’assenza di qualcosa, invece è una diversa presenza». Insomma, i disabili non sono persone che devono diventare il più possibile uguali agli altri, «cambiate lo sguardo e lasciateci la libertà di restare noi stessi, allora noi saremo liberi quanto voi…». Non è questione di leggi in Parlamento, ma proprio di sguardo: «Se le persone vengono misurate per ciò che fanno, è ovvio che uno come me o dj Fabo vuole solo morire. Ma se venissero capite per quello che sono, tutto cambierebbe. Ci vedete come mancanza di libertà, ma noi siamo libertà, se ci viene permesso di essere diversi».

Non fa una grinza. Ricorda l’aforisma di Einstein: ‘Ognuno è un genio, ma se si giudica un pesce dall’abilità di arrampicarsi sugli alberi, passerà tutta la vita a credersi stupido‘. A fare la differenza – spiega allora Matteo – è l’amore, l’unica condizione che renda felice una situazione come la sua. «Ora Fabo, passato da una vita superattiva a un’altra direi opposta, vede solo il dolore, dunque è chiaro che vuole sparire. Se avesse attorno a sé tutto l’amore che ho io, non cadrebbe nella trappola di misurarsi sulla perfezione fisica, ma sulla sua anima intatta». È questione di categorie, insomma: «Se usi quelle dei radicali, noi siamo dei poverini, se però scopri categorie che prevedano la libertà di essere diversi, noi siamo la massima espressione di libertà».

Anche a scuola la filosofia è la materia più amata da Matteo, che frequenta a pieni voti il liceo di scienze umane ‘Cardano’ e quest’anno farà la maturità. In inverno, quando la sua salute è cagionevole, sono i docenti a venire tutti i giorni a casa sua per l’istruzione domiciliare. Nessun privilegio, sia chiaro, «sono gli stessi che la mattina stanno in classe con i miei compagni e non mi fanno sconti». È una sorta di simbiosi, «loro mi spiegano le lezioni e io li aiuto a stare meglio». In che senso? «Escono di qui carichi, perché vedendo me capiscono che nella vita ci sono cose più importanti dei loro casi quotidiani… Portano piccoli problemi ed escono con grandi soluzioni».

Un’associazione «per la cura di chi cura»

È con questo spirito che Matteo, da quando è scattata la maggiore età, sta fondando un’associazione ‘Per la cura di chi cura‘ e con i soldi dei risarcimenti ha già comprato una sede a due piani («ho firmato il rogito tenendo il pennarello in bocca»). L’obiettivo è aiutare chi aiuta i disabili: «Hanno urgente bisogno di cambiare lo sguardo su di noi». Per i ‘normodotati’ Matteo ha forgiato il nome politicamente scorretto di ‘deficitari di cuore’, e sono questi a dover capire: «Se andiamo in un ristorante, ti pare possibile che il cameriere chieda a mia madre cosa io voglio ordinare? Dà per scontato che se sto sulla sedia a rotelle non ho le rotelle a posto. Ma il conto lo pago come tutti».

Non è arrabbiato con i medici che lo hanno fatto nascere in un corpo «smangiato e deforme», non è arrabbiato con nessuno, «il mio spirito ha scelto un corpo così limitato proprio per dimostrare che i limiti sono solo nella nostra testa, la considero la mia missione. Se i miei genitori non fossero stati capaci di guardare oltre, non mi avrebbero salvato dal silenzio e oggi sarei ancora considerato un vegetale senz’anima. Invece ciascuno di noi è un prodigio di bellezza e io lo dimostro ogni giorno vivendo. Pregare mi aiuta molto e il mio rapporto con Dio è costante».

Ha un unico terrore, e sono i tanti che oggi pretendono di misurare la ‘dignità’ delle vite altrui: «Lo dico chiaro, non uccidetemi mai. Temo sempre che un giorno arrivi uno e dica ‘sopprimiamo i disabili che non parlano’… se accadesse io mi troverei in una situazione poco bella ». Non ha mai superato lo choc della morte di Eluana Englaro, «quando decisero di toglierle la vita ero scosso, anche lei aveva la sua missione e non l’aveva finita. Se perfezione è camminare io ed Eluana siamo un disastro, se invece è essere ce la caviamo benisismo. Questo insegnerà l’associazione».

Non a caso la sua passione è il rugby, lo sport praticato dal fratello Iacopo, 14 anni: «È una metafora della vita – spiega la mano di Matteo –, nel rugby la regola è passare la palla all’indietro, se la passi avanti è fallo, e questo ti costringe a guardare sempre chi c’è dietro di te».

Fonte: Avvenire.it

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