Il movimento nato dopo lo scoppio della guerra non ha mai cercato di far parlare di sé: non di noi, dicono i suoi membri, ma di coloro che restano e soffrono
Caro direttore, la notizia dello scampato pericolo dei 110 volontari del Mean (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta) alle porte di Leopoli porta con sé una luce nuova e per tanti aspetti strana, che sarebbe un delitto ignorare. La bella notizia, in questo caso, è di gran lunga più importante della brutta – il solito vile attacco con droni –: così importante che non basta dire “per fortuna”, no. La luce di cui parlo si accende, in questo caso come in tanti altri che passano ai lati del nostro campo visivo, sul significato stesso delle vicende umane, anche delle più brutte. Come ci ricordano uomini come Takashi Paolo Nagai a Nagasaki, i Martiri d’Algeria e tanti altri, la storia non si riduce alle sue brutte possibilità, portatrici di sconforto e disperazione, che un senso luminoso esiste oltre la tempesta e ci fa ripetere, con lieto realismo: «Non si turbi il nostro cuore». Certamente, il caso di Leopoli porta in primo piano l’attività di un gruppo di persone non meno eroico di coloro che si sono imbarcati nella Global Sumud Flotilla, con la stessa finalità ma, diciamo così, con un altro stile. Lo dico perché un bene prezioso della nostra Europa sta proprio nella convivenza creativa e vivida di diverse radici culturali, che senza negare le differenze hanno cercato di porre, insieme, le basi del bene comune. Flotilla e Mean sono la testimonianza della forza antica, plurale e in parte sepolta, di una cultura che oggi rischia la dimenticanza, anche da parte di chi dovrebbe averla a cuore. Il Mean, nato dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, non ha mai cercato di far parlare di sé: non di noi, dicono i suoi membri, ma di coloro che restano e soffrono. Una scelta precisa, perché dettata dalla necessità di non alimentare un odio (quello degli ucraini verso i russi) già alle stelle, ma di portare un conforto, non solo materiale, a gente che non vive soltanto a Kiev o a Kharkiv ma in villaggi mai raggiunti dai mezzi d’informazione, dove la guerra crea non solo morte ma anche solitudine e perdita di senso.
Il Mean porta aiuti ma con gli aiuti porta un abbraccio di cui c’è bisogno come del pane, perché il pane è importante, ma lo è anche il modo in cui lo si porge. Non è un movimento pacifista nel senso tradizionale, non è nemmeno in primis un movimento antirusso: è un gruppo di persone pronto a rischiare quel che c’è da rischiare per portare quel filo di compagnia, di solidarietà, di cui c’è bisogno per vivere. L’odio e la solitudine ci indeboliscono, rendono difficile la resistenza (che è prima di tutto resistenza umana), producono frustrazione davanti alla forza e alla prepotenza e rischiano di creare una spirale senza fine, come ben vediamo in questi duri tempi. Il pericolo che i 110 del Mean hanno corso ci offre una visuale più profonda sul senso degli accadimenti, e ci aiuta ad affrontarli senza frustrazioni. Un vecchio proverbio, nato dal popolo, quindi da gente povera che ben conosceva il tallone del Potere, ma ricca di cristianesimo, dice: «Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi». So che non bisogna fidarsi troppo dei proverbi, ma questo fa eccezione perché nasce da epoche dove di pace ce n’era poca, e ancor meno benessere. Lo dicevano donne e uomini che vedevano morire i loro figli (cosa ahimé normale fino a tre generazioni fa) di malattia o in guerra. E perché lo dicevano? Perché è vero. Perché senza il presentimento di una bellezza, di un bene capace di oltrepassare l’orrore non varrebbe la pena di vivere, di soffrire e ogni gioia sarebbe vana. Ma la verità non si impone mai da sé, non cala dal cielo con spade fiammeggianti. Bisogna prendere un aereo, un treno, un pullman, sperare in un passaggio in macchina, confidare nell’umanità di chi potrebbe intralciare il nostro cammino, e spesso lo fa ma non sempre. Per farlo, come diceva Cormac McCarthy, è necessario avere una promessa dentro il cuore. Nel Mean ci sono credenti e non credenti, e tra gli stessi ispiratori della sua azione ci sono personaggi straordinari e ben diversi tra loro, come Gandhi, don Tonino Bello, Papa Francesco e Alex Langer. Ma la radice del loro impegno – giunto agli onori della cronaca in una circostanza di per sé orribile – sta in una fede limpida e chiara: nessun cannone, nessuna bomba atomica potrà spegnere il nostro bisogno di consolazione e di giustizia. Perché esiste sempre la possibilità che la nostra lotta contro l’ingiustizia e la prepotenza contenga un filo di disperazione che finirebbe per corromperla.