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Il ritorno di san Francesco e la violenza Pro-Pal
— 6 Ottobre 2025— pubblicato da Redazione. —
Forse la pace è possibile in Medio Oriente. Non certo per merito di chi continua a seminare odio nelle piazze.
Dal 4 ottobre 2026 la ricorrenza liturgica di san Francesco ritornerà festività nazionale. È una bella notizia per la quale ringraziare Dio, ma anche il governo italiano, che ha accolto la proposta del poeta Davide Rondoni, Presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni dell’ottavo centenario della morte di san Francesco (2026). La legge che ha ripristinato la festa nazionale, abolita nel 1977, è stata votata quasi all’unanimità dal Parlamento e anche questa è una buona notizia, perché segnala la permanenza nelle forze politiche di un seppure tenue legame con l’identità italiana, con le radici cristiane del popolo che devono molto, ovviamente, anche alla figura del santo di Assisi.
Tuttavia, questo bell’evento avviene in un momento particolarmente buio della cronaca italiana, contrassegnata dalle violenze nelle piazze che hanno accompagnato le proteste contro Israele da parte di tutte le sigle unite della sinistra e di una forsennata campagna di stampa. Come mai adesso, e soltanto in Italia con tale forza e impegno, vengono profuse tante energie, tanto da farci ricordare le manifestazioni per la guerra in Vietnam degli Anni ‘60/70, allora contro gli Usa, oggi contro Israele?
Una prima ragione sta certamente nella crisi delle sinistre, a corto di argomenti per fermare la crescita politica ed elettorale della destra conservatrice e dei populismi in Europa, particolarmente in Italia, dove il governo di centro-destra continua a governare con un consenso popolare costante se non in crescita. A queste forze politiche poco importa delle ragioni del popolo palestinese, così come a Marx e a Engels poco importava della sofferenza degli operai quando lanciarono la lotta di classe scrivendo il Manifesto del partito comunista nel 1848. Allo stesso modo, poco importava, negli Anni ‘60, di migliorare la condizione femminile a chi si accingeva a lanciare il manifesto di un femminismo rivoluzionario e dialettico che avrebbe segnato la cultura e il costume dei successivi 50 anni. Lo scopo della Rivoluzione non è mai quello di migliorare una situazione difficile, ma è il caos, è appunto “fare la Rivoluzione”. Per raggiungere lo scopo, di solito, ci vuole la violenza. E appunto la violenza verbale della stampa di questi ultimi giorni, per esempio di Repubblica e degli editoriali di Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, ricorda il clima degli anni del terrorismo, così come l’avere imbrattato la statua di san Giovanni Paolo II a Roma, davanti alla stazione Termini, con la scritta “fascista di merda” e la firma con la falce e il martello, forse, fornisce un’idea dell’identità antropologica dei manifestanti Pro-Pal. Allora, decenni fa, era il fascista il nemico, in realtà ogni anti-comunista, oggi è l’ebreo e chi difende le ragioni del popolo di Israele. Tuttavia, il nemico è sempre l’Occidente.
Israele ha certamente usato male il suo diritto di difendersi dalle aggressioni che subisce almeno dal 1948, ma ha diritto di esistere, tanto quanto il popolo palestinese. Eppure, il solo ricordare questa ovvietà oggi implica l’accusa di “essere complici del genocidio dei palestinesi”. Provate a immaginare di sostenere pubblicamente un’altra ovvietà: che cosa doveva fare Israele dopo il 7 ottobre? Fare come se nulla fosse accaduto, come se 1250 assassinati e 250 israeliani rapiti fossero una cosa normale? Poi la reazione militare è andata oltre i nostri standard di Paese occidentale, che crede nell’esistenza di valori e di limiti, come l’eccesso di legittima difesa. E tuttavia adesso la pace è diventata possibile perché un altro Paese occidentale, gli Stati Uniti, che non ha mai rinunciato alla solidarietà con Israele, ha costretto Hamas ad accettare la resa e a uscire di scena per potere così raggiungere la fine dei massacri e, forse, un poco di tregua.
Ancora una volta, le persone oneste possono giudicare da che parte stanno il diritto e la volontà di mettere fine al conflitto. L’odiato Trump ha messo tutti i suoi detrattori nell’angolo, costringendoli ad accettare la sua proposta di pace, l’unica possibile, una pace che rispetta il diritto di Israele di esistere e di difendersi.
Spero fermamente che abbia ragione Danilo Taino, che sul Corriere della Sera del 3 ottobre ha scritto che Putin e Hamas stanno perdendo le guerre che hanno cominciato. Secondo il giornalista, che cita lo storico militare Yuval Noah Harari, se «avanzasse al ritmo degli scorsi nove mesi, l’esercito russo impiegherebbe cento anni e decine di milioni di perdite umane per raggiungere l’obiettivo», mentre «se Hamas pensava, il 7 ottobre 2023, di approfittare della guerra in Ucraina per sistemare i conti con Israele, anzi con gli ebrei, ha ottenuto l’opposto: il declassamento suo e dei suoi amici che per decenni hanno tenuto il Medio Oriente sotto il ricatto del terrorismo e delle minacce armate». Speriamo vada a finire proprio così e, intanto, osserviamo gli sviluppi della pax americana.
Infine, torniamo all’Italia e a san Francesco. Pacificante e pacificatore, non era un pacifista violento come quelli che, in questi giorni, hanno assaltato la Stazione centrale di Milano, occupato i binari di diverse altre stazioni, mandato in ospedale oltre un centinaio di agenti della polizia, colpito per l’ennesima volta, negli ultimi mesi, il lavoro degli italiani con uno sciopero generale della Cgil e, infine, scandito per giorni ininterrottamente parole di odio e di rancore soprattutto nei confronti del governo, colpevole di non rompere l’alleanza con Israele e di non approvare con entusiasmo la provocazione della Flotilla. San Francesco ci ha insegnato che la pace è fatta di gesti concreti, di ascolto e di dialogo, di rispetto e di riconoscimento dell’altro, della sua esistenza e delle sue ragioni. Il contrario dell’odio che abbiamo ascoltato in questi giorni nelle piazze e in troppe interviste.
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