Flora è l’infermiera del film “L’ultimo turno” di P. Volpi. Una giornata di lavoro in cui Flora dà tutto. La cura, alla radice, è una domanda di destino
C’è un film in programmazione in queste settimane che davvero non andrebbe perso. Si intitola L’ultimo turno, è stato girato da una regista svizzera, Petra Volpe, e ha come protagonista Leonie Benesch, attrice tedesca che avevamo già ammirato in un altro film capace di andare in profondo sulla quotidianità, La sala professori.
La vicenda è molto semplice: è la giornata di lavoro di un’infermiera nella corsia di un ospedale della svizzera tedesca. Floria, questo il nome della protagonista, ha il turno del pomeriggio, quello che prepara i pazienti alla notte. L’ospedale è con l’organico all’osso (neanche la Svizzera si salva…) e quel giorno sono solo in due in corsia più una studentessa in tirocinio.
I ritmi sono vorticosi, la regista segue il lavoro di Floria con una macchina da presa a mano, e noi spettatori siamo catturati come se stessimo assistendo ad un film d’azione che toglie il respiro. Floria è super professionale. Si muove con una velocità stupefacente tra medicine, aghi, flaconi di flebo per preparare le cure da somministrare ai pazienti. Lavora davvero sotto pressione, le luci fuori dalla camere si accendono anche per richieste da nulla, lei ha il foglietto in tasca con il giro dei malati che deve completare entro la fine del turno.
Sa che non può fermarsi; noi, seguendola, restiamo in ansia nel timore di qualche passo falso da parte sua. Con il suo carrello entra nelle camere, e quando si mette di fronte ai pazienti, anche i più “impazienti”, la vediamo però sempre capace di una parola tranquillizzante, di un’attenzione imprevista.
Dove trova la forza per attenzioni come queste dentro il turbinio della sua giornata? La vediamo agire così, con questi lampi di calma, e restiamo colpiti. Come fa a sentire tanto attaccamento al lavoro di ogni giorno, pur nell’irritazione per le condizioni in cui si trova a esercitare la sua professione?
Certamente la sceneggiatura di questo film è pensata per mettere in luce l’emergenza reale legata alle condizioni di chi oggi lavora in corsia come infermiera o infermiere. Al termine della proiezione appare una dicitura che informa lo spettatore che in Svizzera il 36% del personale infermieristico abbandona la professione dopo appena quattro anni di servizio e che nel Paese nel 2030 mancheranno 30mila infermieri qualificati. La questione è in realtà globale e rappresenta un rischio per tutti. Quindi l’esasperazione del ritmo è funzionale a questo sacrosanto obiettivo di denuncia.
Ma il personaggio di Flora non si lascia definire da un orizzonte di pur legittima rivendicazione. Lei crede nel suo lavoro, ne è come investita. E man mano che la giornata avanza e deve inerpicarsi tra mille urgenze, appare sempre più evidente che la cura di quei corpi feriti dalle malattie apre in lei una domanda sul mistero di ogni singola vita che ha di fronte. È come una breccia che le ferisce il cuore e la porta a compiere con molta naturalezza quei minimi gesti pieni di umanità (tenerissimo il duetto con cui calma un’anziana malata di Alzheimer).
A volte però la troviamo attonita, sconfitta dal fallimento: una paziente, che sarebbe stata l’ultima del giro, è morta. Quando deve accompagnare il suo corpo nell’obitorio, la vediamo esitare davanti alla cella frigorifera aperta. Con una mano tocca il volto coperto dal lenzuolo e resta per un lunghissimo istante in silenzio. E a noi, chiedendo in prestito le parole di Enzo Jannacci, viene da chiedere per lei in quel momento una “carezza del Nazareno”
Fonte: Giuseppe Frangi | IlSussidiario.net