Sudan. Dove la guerra e la fame uccidono anche la coscienza
Ci sono luoghi al mondo dove le sorti terrificanti di intere popolazioni restano celate in quel frammento di spazio e tempo che si vorrebbe restasse fuori dalla storia dell’umanità, ma che inevitabilmente ne fa parte macchiandola della colpa più grave: l’indifferenza.
Uno di questi luoghi è Lagawa, una località del Darfur orientale in Sudan dove il mese scorso altri 13 bambini sono morti per fame aggiungendosi alle centinaia a cui è toccata la stessa sorte nel Darfur. Carenza di cibo provocata dalla guerra – che prosegue da oltre due anni – tra il generale Mohamed Hamdan Dagalo, a capo dei miliziani delle Forze di Supporto Rapido (RSF) e l’esercito Sudanese (SAF) guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan.
A Lagawa c’è uno dei tanti insediamenti dove si sono rifugiate le persone in fuga dalle violenze. Il sito ospita almeno 7.000 persone ed è stato oggetto di ripetuti attacchi da parte dei gruppi armati. Più a nord nel campo di Zamzam, dove sono ammassati più di mezzo milione di sfollati, il 34 per cento dei bambini sotto i 5 anni è affetto da malnutrizione acuta, con il 9 per cento in forma grave. Il campo è stato attaccato ad aprile dai miliziani delle RSF provocando la morte di almeno 1.500 civili in poco più di 72 ore. Poco distante, nella città martire El-Fasher, assediata da oltre un anno senza che nessun aiuto possa entrare, negli ultimi sei mesi almeno 240 bambini sono morti per fame.
La guerra ha provocato una crisi umanitaria senza precedenti con oltre 30 milioni di persone — più della metà della popolazione sudanese — che necessitano di assistenza. Oltre 12 milioni di persone hanno abbandonato le loro case cercando rifugio in altre regioni del Sudan o nei Paesi limitrofi come Ciad, Sud Sudan ed Egitto. In alcune aree, ormai da oltre un anno, la carenza di cibo ha assunto i connotati della carestia ovverosia la forma più grave che non lascia scampo ai più fragili, come ai bambini di Lagawa, Zamzam e El Fasher.
Come loro molti altri sono morti e moriranno se la guerra non si ferma. Le stime parlano di oltre 150.000 vittime per la gran parte civili, bruciate vive dalle bombe, colpite da proiettili, violentate, morte di stenti o per mancanze di cure. Quanto agli atti genocidari e di pulizia etnica già denunciati nel Darfur da parte delle Forze di Supporto Rapido (RSF), vi è il sospetto si stiano compiendo anche in altre aree da parte di gruppi islamisti affiliati con le SAF, in questo complici contro le popolazioni di pelle scura.
Tutto questo prosegue in modo invisibile agli occhi del mondo, atrocità che non hanno dignità né di notizia, né di azione politica. Persino i fondi per gli aiuti umanitari restano fermi al 23 per cento di quanto necessario per assistere quanto meno chi è possibile raggiungere.
In Sudan, come a Gaza, in Ucraina e negli altri conflitti “della guerra mondiale a pezzi”, con gli innocenti sono morti e sepolti non solo il diritto internazionale, ma la coscienza dei leader politici. D’altro canto, come potrebbero smuovere le coscienze dei potenti, gli scheletri sudanesi che nessuno vede, vittime della lotta di potere di due generali ignoti alla gente comune (ma non a coloro che ci fanno affari), se non riescono a scalfirle quelli dei palestinesi sterminati in diretta streaming da quasi due anni da uno stato alleato, partner commerciale e militare dell’Occidente e dell’Oriente. Una colpa collettiva che non la storia, ma solo Dio potrà, se vorrà, perdonare.
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Fonte: Fabrizio Cavalletti | italiacaritas.it