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Né privati, né pubblici, I beni sono comuni

Cinquantacinquenne parigino, matematico, economista e gesuita, Gaël Giraud ha pubblicato tre anni fa il libro Composer un monde en commun. Une théologie politique de l’anthropocène (Seuil, 2022) per proporre i «beni comuni» in alternativa alla tendenza, da lui denunciata, verso una privatizzazione senza limiti. Il libro nasce dalla tesi di dottorato discussa nel 2020 presso le Universités jésuites de Paris. Una prima parte del testo esce in Italia il 9 settembre in coedizione Piemme – Libreria Editrice Vaticana con il titolo Costruire un mondo comune. E Dio non benedisse la proprietà privata (prefazione di Carlo Petrini, traduzione di Pier Maria Mazzola). Un secondo volume, con il resto del libro francese, è previsto per il 2026. L’autore dialoga online con «la Lettura» da Bruxelles, dove lavora per la rappresentanza gesuita presso le autorità europee e coadiuva il Padre generale dei gesuiti sui temi della giustizia ambientale.

Perché questo libro? Perché promuovere i beni comuni?

«Da una quarantina d’anni l’Occidente si muove nella politica, nella società e nella cultura in direzione d’una sempre maggiore privatizzazione del mondo. Si tende a privatizzare tutto ciò che può essere privatizzato. Nella proprietà intellettuale, sul fondo degli oceani, nella biodiversità, nel clima, nella salute. Ora, nel dibattito classico, la categoria opposta a quella della privatizzazione è la cosa pubblica. La res publica del diritto romano. Ma io propongo un’altra categoria, quella dei “comuni”».

Anche questa categoria risale al diritto romano.

«Nella Roma antica la res communis era il tipo di proprietà più nobile, più elevata, al di sopra della res publica. Perché la res communis è la cosa che appartiene a tutti e di cui siamo tutti responsabili. Riabilitare i beni comuni, i “comuni”, è una risposta politica, sociale, ma anche giuridica e in fondo spirituale, alla crisi ecologica e alla crisi della democrazia stessa».

I «comuni», lei scrive, sono i beni del cui destino dobbiamo decidere insieme, in comune appunto.

«C’è la proprietà privata: se sono proprietario di qualcosa ho il diritto di escludere chiunque altro dall’usarne. Poi c’è la proprietà pubblica, quella dello Stato. Poi c’è la cosa comune di cui è proprietaria una comunità. Nel libro cerco di dire che per comprendere le varie categorie dobbiamo prendere in considerazione lo statuto ermeneutico, cioè il modo di interpretazione, delle regole che una comunità si dà per gestire una risorsa».

In che senso?

«Se queste regole sono sottoposte alla deliberazione democratica, se possono essere messe in discussione da tutti i membri della comunità, allora diventano un “comune ermeneutico”. La mia tesi è che proprio questo caratterizza i beni comuni: sono tali tutte le risorse simboliche, culturali, materiali, ecologiche che vogliamo gestire insieme attraverso regole che sono esse stesse sottoposte a deliberazione. I beni comuni sono così legati a uno statuto di “comune ermeneutico” nel quale si può identificare il fondamento stesso della democrazia».

Da dove viene questa riflessione?

«Sono partito dallo studio della matematica e dell’economia. Ho lavorato come consulente di banche, esperto dei mercati finanziari. Prima di diventare gesuita. Ma il progetto di essere gesuita è di lunga data. Tengo insieme le due dimensioni da tanto tempo. Essere prete e gesuita significa interessarsi a tutto l’uomo, a tutta l’umanità, a tutta la creazione. E oggi l’economia ha preso un posto talmente importante. Non posso, come prete e come gesuita, non interessarmi anche delle questioni economiche».

L’interpretazione della Bibbia è fondamentale nel suo libro. Lei si sofferma in particolare sull’Ascensione in cielo di Gesù risorto.

«Nel Nuovo Testamento troviamo un duplice racconto dell’Ascensione. Alla fine del Vangelo di Luca e all’inizio degli Atti degli Apostoli, di cui è ancora Luca l’autore. È sorprendente che nonostante questa insistenza l’episodio sia stato poco commentato dai padri della Chiesa e dai teologi. A me pare invece assolutamente fondamentale per noi oggi e ho cercato di darne una interpretazione».

Quale?

«All’inizio degli Atti, gli apostoli domandano al Cristo resuscitato se ora ristabilirà il Regno di David. Va ricordato che il programma messianico nella Palestina dell’epoca era quello di cacciare i romani e ristabilire il Regno di David, il Regno di Israele. Cristo si limita a dire: “Non vi spetta conoscere l’ora fissata dal Padre nella sua autorità, ma vi sarà data una forza”, lo Spirito Santo, e detto questo scompare in cielo. Lascia dunque vuoto il trono di David».

Come interpreta l’episodio?

«Una prima interpretazione dice: il Cristo è andato a sedersi sul trono del Padre e ha compiuto la sua missione, la redenzione del genere umano. Dunque, in un certo senso, ha chiuso la storia. La storia è terminata. Chiamo “gloriosa” questa interpretazione perché vede nell’Ascensione un’apoteosi. Essa però pone un problema teologico: se la storia che ci separa da quell’avvenimento non ha più interesse, se tutto si è già compiuto, perché inviarci lo Spirito Santo?».

Lei preferisce una seconda interpretazione.

«Il Cristo si è rifiutato di sedere sul trono di David per lasciarlo vuoto. Nell’Europa orientale, ma anche in molte chiese in Italia, vi è una iconografia che ritrae vuoto il trono del giudizio. Questo indica che il Cristo non si è ancora seduto sul trono sul quale siederà alla fine dei tempi. Ciò dà uno spessore storico al tempo in cui siamo ora. Propongo allora di pensare che il Cristo si rifiuti di sedere sul trono di David per lasciare il tempo a noi di inventare quelle figure del legame sociale, quelle figure politiche, che si siedano sul trono di David al posto di Cristo».

Ricade su di noi la responsabilità del governo.

«È la definizione della santità di cui si parla nel libro dell’Apocalisse, quando si dice che quanti avranno attraversato la prova della santità andranno a sedersi sul trono del Padre insieme al Cristo. Il potere assoluto di Dio Padre è messo in comune, Dio vuol condividere il suo potere con noi, ma dobbiamo imparare a farlo. E invece non vogliamo. Invece io voglio sì sedermi su quel trono, ma da solo. Senza il Cristo, senza la Croce. Dunque, il tempo nel quale ci troviamo, che è il tempo dello Spirito, è un tempo di preparazione, di apprendimento, nel quale impariamo, poco a poco, a consentire a sederci sul trono del Padre con il Cristo».

Come lega questa interpretazione alla questione dei «comuni»?

«Il nesso sta nelle diverse figure del legame sociale che possiamo immaginare per occupare quel trono di David che Gesù ha lasciato vuoto. E qui torniamo alle diverse categorie. Alla res privata, alla res publica, alla res communis. E la categoria per eccellenza del cristianesimo, credo, sono i beni comuni».

Perché?

«Negli Atti degli Apostoli Luca descrive la Chiesa primitiva in questi termini: “mettevano tutto in comune”, “condividevano tutto”. Questo apprendimento della messa in comune è l’apprendimento, da ultimo, della condivisione del potere con Dio. Ed è anche l’apprendimento della democrazia, di regole del vivere insieme che ci diamo noi stessi ma che sono poi anch’esse sottoposte a deliberazione. Forzando un po’, direi che l’Ascensione è l’atto fondatore cristiano della democrazia».

Esaminata la Scrittura, la sua indagine si sposta sui teologi.

«San Tommaso dice chiaramente che la proprietà più nobile è la res communis. Ma non è facile per gli umani: bisogna discutere, accordarsi. Allora si concede la proprietà privata. Che però, proprio in quanto concessione, non è di diritto naturale. La res communis è di diritto naturale. Mentre la proprietà privata è di diritto positivo».

Nel 1891 la «Rerum novarum» di Leone XIII sembra invece benedire la proprietà privata.

«L’enciclica Rerum novarum è come un tessuto con due tipi di fili. Un filo viene da Tommaso che celebra la res communis e presenta la proprietà privata come una concessione alla finitudine della natura umana. L’altro filo viene da John Locke che proclama la proprietà privata diritto inalienabile e sacro. Rerum novarum è una specie di compromesso che sposa le due visioni. Con questo compromesso continuiamo a vivere nella Chiesa».

Auspica un chiarimento?

«Provo a sostenere che Papa Francesco, pur senza dirlo esplicitamente, ha cercato di promuovere di nuovo i “comuni” in grandi testi come Laudato si’, Fratelli tutti, Laudate Deum e Querida Amazonia. Come possiamo immaginare che l’Amazonia divenga un “comune” globale? Come fare in modo che l’acqua diventi un “comune”? Stiamo avanzando nella Chiesa, ma anche al di fuori di essa, per la promozione dei “comuni”. Non per sostituire la proprietà privata, non certo per abolirla, ma per dare ai “comuni” quel posto che ci permetta di risolvere i grandi problemi di oggi».

Confida dunque nell’eredità di Papa Francesco.

«Papa Francesco ha iniziato in gran parte il lavoro non solo nei grandi testi che ho ricordato, ma anche nel Sinodo sulla sinodalità. La sinodalità, in fondo, reintroduce il “comune ermeneutico” nella nostra Chiesa. Rimette alla deliberazione comune all’interno della Chiesa le grandi decisioni che dobbiamo prendere».

E Leone XIV?

«Fin dalla sua prima apparizione al balcone, Leone XIV ha menzionato la sinodalità. Credo dunque che proseguirà in questa direzione. Dove ci si può aspettare una innovazione da parte sua è nel diritto canonico. A differenza di Papa Francesco, Papa Leone è un canonista. Può mettere in cantiere, credo abbia già cominciato, una revisione del diritto canonico perché esso si apra alla sinodalità e divenga un “comune ermeneutico”, mentre invece, come dico nel libro, il diritto canonico di oggi è ancora l’erede della riforma gregoriana, dunque della Chiesa come res publica, come Stato».

Nel 1925, giusto cento anni fa, Pio XI istituì la festa di Cristo Re.

«La festa del Cristo Re è la festa di un Dio cristiano che vuole condividere il suo potere».

Lei critica l’assolutizzazione post-liberale del privato, ma anche l’assolutizzazione postdemocratica del pubblico.

«Guardiamo di nuovo agli Atti degli Apostoli. Al capitolo 5 c’è la storia di Anania e Saffira, due ricchi che non hanno dato tutto alla comunità. Ebbene, essi vengono immediatamente fulminati. Poi, al capitolo 12, troviamo re Erode che si siede sul trono — lui sì, contrariamente a Gesù — e si fa acclamare come se fosse Dio. Anche lui viene immediatamente fulminato. La Chiesa primitiva ci avverte. L’assolutizzazione della proprietà privata è molto grave, ma lo è anche l’assolutizzazione del pubblico».

È sicuro che la sua «teologia politica» non sia un invito al comunismo?

«Il comunismo è l’assorbimento della società tutta nella sfera pubblica. Tutto diventa pubblico. È Erode. È il totalitarismo. I beni comuni sono una terza via. Non è lo Stato che è proprietario. Il comunismo non c’entra nulla. Le comunità energetiche che ho visitato in Italia non sono comunismo. Sono comunità della società civile che mettono insieme certe risorse. Il vero attore della res communis è la società civile, non lo Stato. Chi mi rimproverasse di sostenere un cristianesimo cripto-comunista non coglierebbe proprio la questione. Ciò che propongo è una terza via: né il tutto privato, né il tutto pubblico, ma la società civile in prima linea per inventare i “comuni”».

Nel suo cristianesimo dei «comuni» non si rischia di perdere la trascendenza?

«La sinodalità non vale soltanto per la Chiesa. Vale anche per la democrazia. La trascendenza è presente quando sperimentiamo di aver bisogno, per metterci d’accordo, di un riferimento che pur non chiamandosi Dio ci supera tutti ed è comune a tutti».

Fonte: Marco Ventura int. Gaël Giraud | FrancescoMacrìBlog

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