Da tempo sul fine vita il Centro Studi Livatino ha lanciato l’idea di una legislazione che, mantenendo ferma l’inviolabilità del diritto alla vita e il divieto di ogni forma di eutanasia, continui a sanzionare penalmente l’assistenza al suicidio, prevedendo eventualmente in alcune fattispecie una riduzione di pena.
Di fronte a notizie della stampa che ipotizzano, invece, l’approvazione di una disciplina che preveda una procedura per accedere all’assistenza al suicidio nelle note condizioni indicate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, sempre più sulla strada della colegislazione, è opportuno chiarire le ragioni per cui tale normativa non appare condivisibile.
Anzitutto, va ribadito che finora la Corte costituzionale non ha riconosciuto un diritto alla morte, ma si è limitata a garantire una ristretta area di non punibilità per l’assistenza al suicidio in presenza di talune circostanze. In questo quadro, una legge che sancisse una procedura cui ricorrere per l’assistenza al suicidio finirebbe invece per affermare tale diritto alla morte, riducendo l’eventuale rifiuto dei sanitari a una forma di obiezione di coscienza. Non esiste, infatti, procedura prevista dall’ordinamento che non presupponga a monte il riconoscimento di una posizione di vantaggio in capo all’istante e, dunque, di un diritto o di un interesse legittimo. La situazione non sarebbe recuperabile con qualche blanda affermazione di principio, come dimostrano l’esperienza delle normative sull’aborto e sulla procreazione assistita, entrambe introdotte da generose dichiarazioni di principio, poi contraddette dalla disciplina dettata nel prosieguo del testo legislativo[1] e dall’interpretazione (talora creativa) dei giudici.
Una legge che riconoscesse, invece, ai malati la pretesa di essere aiutati al suicidio avrebbe, inoltre, un valore (anti)“pedagogico” straordinario, finendo per cristallizzare il portato di derive eutanasiche giurisprudenziali, mai affermate dal popolo sovrano tramite i suoi rappresentanti. Il suicidio assistito da semplice causa di non punibilità legata ad arresti giurisprudenziali, sempre criticabili anche in ragione di un’opera di colegislazione decisa da chi invece dovrebbe limitarsi ad applicare il diritto posto, si trasformerebbe in una “conquista” democratica, con conseguenze sotto gli occhi di tutti nei Paesi in cui è stato intaccato il principio dell’indisponibilità del diritto alla vita (Canada, Paesi Bassi etc).
A queste considerazioni si obietta che la legge servirebbe a porre un punto fermo in una contrapposizione Corte costituzionale/Parlamento che si trascina da più di un lustro. Anche questo argomento non è convincente. Si tratta di una (em)pia illusione. Lo dimostra una questione di legittimità costituzionale pendente alla Consulta sull’art. 579 c.p., che punisce l’omicidio del consenziente. La causa verrà discussa a inizio luglio (credo a tempo di record per un giudizio in via incidentale, visto che l’ordinanza di rimessione è del 30 aprile u.s.). Si mira a ottenere le stesse condizioni, già indicate dalla Consulta per la mancata punizione dell’assistenza al suicidio, anche per l’omicidio del consenziente, con ciò dimostrando che una legge ispirata alla logica della giustificazione della condotta di assistenza al suicidio non sarebbe un punto fermo, ma un piolo verso il traguardo dell’eutanasia on demand. Tra l’altro, nessun disegno di legge all’esame del Parlamento affronta il problema dei minori e degli incapaci: se l’assistenza al suicidio fosse un diritto e, dunque, un bene, perché la titolarità e l’esercizio di questo diritto non dovrebbero essere garantiti anche a loro? Di qui il rischio di nuovi interventi creativi della Consulta, volti ad allargare ulteriormente le maglie di quanto verrebbe sancito dal legislatore, così come avvenuto con la legge sulla procreazione medicalmente assistita. Abbiamo già letto, infatti, qualche mese fa, che uccidere può essere un atto di pietà. Perché allora negare questa “pietà” ai minori e agli incapaci? La legge, dunque, non chiuderebbe la questione, ma anzi paradossalmente la riattizzerebbe, con conseguenze facilmente immaginabili anche alla luce dell’inesorabile avvicinarsi delle fine della legislatura e delle nuove elezioni politiche. È facile ipotizzare che i fragili paletti posti dalla normativa (ad es. un divieto del Servizio Sanitario Nazionale di erogare le prestazioni di assistenza al suicidio) verrebbero sottoposti anche a referendum abrogativo, mettendo la vita ai voti e con esiti agevolmente prevedibili.
Infine, una legge come quella sopra descritta approvata da una maggioranza di centro-destra o, se si preferisce, di destra-centro finirebbe per posizionare il mondo conservatore, popolare e autenticamente democratico, su una scelta politica analoga a quella rivendicata fieramente da noti esponenti della sinistra progressista, radicale ed elitaria. Il che renderebbe, per il futuro, da un lato impossibile un posizionamento politico alternativo volto a tornare indietro e riaffermare una piena garanzia dell’inviolabilità del diritto alla vita; e, dall’altro, spingerebbe il mondo c.d. progressista e quello radicale ad alzare la posta – anche in vista delle elezioni – spostando il confine del trionfo dell’autodeterminazione individuale ancora più avanti dei suoi attuali confini.
Ce n’è abbastanza per dire, convintamente, NO a una legge che fissi una procedura per l’assistenza al suicidio.
Fonte: Filippo Vari* | CentroStudiLivatino.it
*professore ordinario di Diritto costituzionale e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino
[1] La legislazione in materia di aborto, oltretutto, fece seguito a un intervento della Corte costituzionale che aveva allargato le maglie dello stato di necessità scriminante e, con ciò, l’ambito delle condotte per le quali deve escludersi una valutazione di antigiuridicità a opera dell’ordinamento. Nel caso del suicidio assistito, invece, la non punibilità non escluderebbe l’antigiuridicità della condotta. Questa esclusione avrebbe potuto ritenersi esistente in virtù dell’esercizio di un diritto, ma la Corte costituzionale, come si è detto, non ha riconosciuto in nessun caso il diritto all’assistenza medica al suicidio. Ciò che la Corte ha riconosciuto è semplicemente la non punibilità di una condotta rispetto alla quale permane intatta la valutazione di antigiuridicità a opera dell’ordinamento.