Il 12 giugno 1945, 80 anni fa, per alcune città della Venezia Giulia finiva l’incubo della sanguinosa occupazione da parte dei “liberatori”. Sembra un paradosso, ma se nel resto d’Italia la liberazione dal nazifascismo era stata realizzata con il contributo delle forze angloamericane accolte dalla folla festante, nelle regioni adriatiche dal 1° maggio in poi irruppero le truppe jugoslave del maresciallo Tito, e non fu una festa. Sono i famigerati “40 giorni di terrore” a Trieste, Gorizia e nelle città dell’Istria, segnati dalle stragi di casa in casa di migliaia di civili italiani, anche di chi aveva partecipato alla lotta partigiana. Una mattanza cui dopo 40 giorni misero fine gli stessi alleati di Tito. Il rigoroso saggio Togliatti, Tito e la Venezia Giulia (Mursia, pagine 182, euro 15,00) di Marino Micich, direttore a Roma dell’Archivio Museo Storico di Fiume-Società di Studi fiumani, presenta documenti inediti (o poco noti) fondamentali per comprendere il ruolo che ebbe il Pci con il suo leader Palmiro Togliatti, il suo progetto di estendere in Italia il regime bolscevico e, a questo scopo, le trame perché la Venezia Giulia fosse ceduta alla Jugoslavia.
Il 12 giugno Trieste festeggia gli 80 anni dalla liberazione dopo i “40 giorni” di sangue. Una data sconosciuta a molti italiani.
«È invece una data importante per la storia d’Italia. Trieste e Gorizia furono occupate a partire dal 1° maggio 1945 dal IX Corpo di liberazione sloveno e dalla IV Armata popolare jugoslava: si concludeva così, temporaneamente, la “corsa per Trieste” da parte dell’esercito jugoslavo, che ancora prima di occupare il 3 maggio Fiume e poi Pola corse per precedere ad ogni costo i suoi alleati della II divisione neozelandese. Furono circa 4.000 a Trieste e 700 a Gorizia gli italiani subito rastrellati, gettati nelle foibe del Carso triestino o eliminati nei campi di concentramento jugoslavi. Lo stesso avvenne in Istria, a Fiume, a Zara e così via, per un totale di vittime, in pochi giorni e a guerra finita, di 5.000/8.000 uomini e donne».
Che cosa emerge incontrovertibilmente dalla ricca documentazione del suo saggio?
«L’alleanza politica e militare del Pci, guidato da Palmiro Togliatti, con Tito. Ma anche l’esistenza di basi dell’Ozna, la polizia segreta di Tito, non solo a Trieste, Gorizia e Monfalcone, ma addirittura a Roma, Napoli e Bari. Oltre alla cattura di cittadini italiani, con il tacito assenso degli Alleati e del governo italiano provvisorio, vennero lasciati nelle mani degli agenti jugoslavi decine e decine di fuorusciti croati, sloveni e serbi, non solo appartenenti alle formazioni anticomuniste (gli ustascia croati o i cetnici serbi), ma anche alle forze democratiche come i cristiano-popolari sloveni, i liberal-monarchici serbi, gli esponenti del Partito contadino croato di Stjepan Radić. Di questi aspetti legati all’Ozna in Italia, a dir poco inquietanti, ad oggi si è parlato pochissimo.
L’alleanza del Pci con il Movimento Popolare di Liberazione Jugoslavo si comprende per lo scopo comune di sconfiggere il nazifascismo. Ma c’erano altre mire ben diverse, oltre a questo?
«L’alleanza Togliatti/Tito aveva il piano dichiarato di portare avanti, in caso di vittoria finale, una rivoluzione comunista anche in Italia. Importanti dirigenti del Pci come Pietro Secchia e Luigi Longo premevano fortemente per far entrare l’Italia nell’orbita di influenza sovietica. Sulle intese tra comunisti italiani e jugoslavi è interessante la relazione intitolata “Riservatissima” del 24 settembre 1944 inviata da Vincenzo Bianco al direttivo del Pci. Bianco, che aveva ricevuto l’incarico da Togliatti di raggiungere un’intesa politica e militare con i partigiani di Tito, nella “Riservatissima” scrive: “Dice il compagno E. [cioè Ercoli, pseudonimo di Togliatti, ndr] che noi consideriamo un fatto positivo l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del Maresciallo Tito, di cui dobbiamo rallegrarci e che dobbiamo in tutti i modi favorire. Questo, infatti, significa che in questa regione si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera d’Italia”. Un’altra citazione interessante è quella ripresa dal quotidiano comunista “Jutro” di Lubiana del 5 gennaio 1944: “Si debbono eliminare tutti i dirigenti appartenenti a correnti borghesi, tutti i possidenti agrari, capitalisti e industriali (…), tutti gli intellettuali, gli studenti e politici da caffè, tutti i sacerdoti che si sono dichiarati contro il proletariato (…), tutte le liquidazioni dovranno essere eseguite il giorno che verrà fissato da speciali reparti del Partito”. Rispetto a queste posizioni si oppose a un certo punto una parte del Comitato di Liberazione Nazionale per la Venezia Giulia e così si creò una dolorosa frattura nel Cln giuliano. Frattura che portò addirittura al passaggio dei partigiani della “Garibaldi-Natisone” sotto gli ordini del famigerato IX Corpus sloveno, con il conseguente eccidio alla malga Porzûs nel febbraio 1945 di 17 partigiani italiani della Brigata Osoppo (di orientamento laico-socialista e cattolico) per mano di partigiani comunisti italiani dei Gap (Gruppi Armati Proletari)».
Del gulag adriatico di Goli Otok la sinistra italiana sapeva?
«Togliatti e i vertici del Pci sapevano tutto di ciò che accadeva nella brulla isola dalmata dove vennero internati, assieme a centinaia di comunisti slavi, decine e decine di operai comunisti di Monfalcone e istriani, in quanto rimasti fedeli a Stalin dopo la rottura del dittatore sovietico con Tito nel 1948. Molti di loro trovarono morte atroce in quell’isola».
La Udba, erede della Ozna, continuò ad agire a lungo?
«L’Udba (“Amministrazione della Sicurezza Statale”) aveva poteri illimitati e fu sciolta solo nel 1991, quando scoppiò il conflitto in ex Jugoslavia. Fu responsabile dell’eliminazione di centinaia e centinaia di “nemici dello Stato” in Jugoslavia, mentre al di fuori dei confini nazionali si stimano 200 tra uccisioni e sequestri di dissidenti politici croati e serbi».
Violante nel 2004 commentò che «il confine ideologico è prevalso su quello geografico»: cosa voleva dire?
«Luciano Violante è stato fondamentale per l’approvazione della legge istitutiva del Giorno del Ricordo, in quanto portò i voti del Partito Democratico della Sinistra. Con queste parole fu tra coloro, dell’area ex comunista come Piero Fassino, Walter Veltroni e il presidente Giorgio Napolitano, che ammisero il silenzio sui gravi torti commessi dal comunismo italiano in accordo con quello jugoslavo nei confronti delle innocenti popolazioni italiane delle terre giuliane, istriane, fiumane e dalmate».
Fonte: Lucia Bellaspiga | Avvenire.it