Si fa fatica oggi a parlare di carcere, del “mio” carcere, quello di Bollate, dove entro, da poco meno di due anni, come volontaria. Da qui lo scorso weekend è uscito, per non tornarci mai più, Emanuele, rendendosi protagonista di una delle vicende più agghiaccianti che la cronaca milanese, e nazionale, abbia mai udito.
TV, giornali, social si sono scatenati (e come farsi sfuggire una storia come questa), hanno parlato del killer di Bollate, del novello dottor Jekyll e Mr Hyde, e molti si sono improvvisati esperti del fenomeno carcerario e delinquenziale, puntando il dito su educatori, magistrati, famiglia. Un altro femminicidio che si poteva evitare, visto che ne aveva già commesso uno. Verissimo. Eppure c’è qualcosa che sfugge.
Chi conosceva da anni Emanuele, anni di galera, può dire che questo non è il suo volto. Come lo dice insistentemente sua madre, per la quale Ema, così lo chiama, è e rimane il suo figliolo, un figlio che si era perduto e che stava cercando di ritrovare se stesso. E ci era riuscito, tanto da guadagnarsi la stima di diverse figure professionali che ruotano attorno a ogni detenuto (educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, criminologi, polizia penitenziaria, magistrati, volontari, cappellani), fino a concedere i benefici dell’art. 21.
L’art. 21 è una occasione educativa prevista dall’ordinamento penitenziario italiano, tra i più illuminati al mondo, che disciplina la possibilità del lavoro esterno per chi si distingue per comportamento esemplare e viene segnalato alle autorità competenti nel decidere tale provvedimento. Il lavoro, per Emanuele, è stato il terreno di sfida del proprio senso di responsabilità, di umanità, di rispondere a chi aveva scommesso su di lui con il fiorire di una vita nuova, il modo per mettersi in gioco e dare finalmente senso alla vita. È quello che Emanuele continuamente affermava. Bollate era veramente per lui occasione di riscatto e questa fiducia accordatagli non voleva tradirla.
Mettere in gattabuia chi ha sbagliato e buttare la chiave non è una soluzione che recuperi la dignità, e, a quanto dicono le statistiche, nemmeno il miglior modo di evitare la recidiva. Emanuele era consapevole di avere avuto una grande occasione per sé con il lavoro esterno al carcere. Studiava tantissimo, sosteneva esami per avere la licenza e iscriversi all’università. “Fatto esame di italiano e matematica: superati!”.
Capitava di ricevere messaggi come questo, pieni di entusiasmo perché cominciava a vedere i frutti del cambiamento: una vita normale. In questi anni, abbiamo avuto modo di conoscerlo e vederlo impegnato seriamente sulla strada del recupero di sé, del proprio volto umano. Voleva dimostrare, prima di tutto a se stesso, che non si era perduto totalmente, che non era finito come uomo. Era sempre grato della compagnia di noi volontari perché, diceva, “persone come voi ci danno speranza e coraggio, dico sul serio”.
Niente poteva far presagire l’epilogo di questi giorni infernali. Il senso di sgomento, spaesamento e infine impotenza che ha investito un po’ tutti coloro che si sono prodigati per lui ha lasciato, poco a poco, spazio a una rinnovata consapevolezza che nessuno è il salvatore del mondo. Solo Uno nella storia ha detto di esserlo, eppure non ha risparmiato la fatica della libertà nemmeno a coloro che si era scelto come amici. È il rischio educativo che ben conoscono i padri e le madri che vedono i figli perdersi, prendere strade contrarie al loro bene, eppure non smettono per questo di amarli e di accompagnarli, tentare di recuperarli, senza mai mollarli, tenendo sempre la porta aperta.
Emanuele ha tentato con tutto se stesso di convertirsi a una vita autenticamente umana. Ma il cuore dell’uomo è un abisso e lo conosce solo Dio. Non è una giustificazione, perché non c’è giustificazione al male compiuto, non si recupera una vita strappata, non si aggiusta, non qui, non in questa vita, ma riportare alla memoria ciò che ci accomuna a lui, ovvero il suo tentativo umanissimo e verissimo di amare ed essere amato, quell’Emanuele che la sua mamma per prima, e alcuni di noi dopo, hanno conosciuto in questi ultimi anni, prima che qualcosa dentro di lui si rompesse definitivamente e lo portasse in un vortice di autodistruzione.
L’ultimo atto, conoscendolo, era inevitabile. Lui che aveva fatto della integrità morale una bandiera in tutti questi anni, prendendo coscienza di ciò che ha fatto, si è erto a giudice e boia anche di se stesso condannandosi a morte prima che lo facesse il mondo. Forse non riusciva a sopportare l’idea di essere guardato dopo tanto orrore, tanta violenza, dai suoi amici, da quanti si erano fidati di lui, che gli avevano dato credito. Credo non abbia sopportato più l’immagine di se stesso, che il limite era superato, non c’era alcuna assoluzione possibile.
Lui era cambiato, ma non del tutto. Pensava ancora di poter fare tutto da solo, come il vecchio Emanuele. Se solo si fosse fidato, non si fosse staccato da quell’origine di bene che aveva intuito, originato da una compagnia di amici, perché non ci si salva da soli, forse, chissà, oggi non ci sarebbero madri e figli a piangere i propri cari. Forse. E forse, chissà, quella decisione di salire fin sul tetto del Duomo, quasi a raggiungere Lei, la nostra bella Madonnina, non è stato un caso, come a chiedere scusa, come alla sua madre carnale, forse un ultimo tentativo di ritrovare se stesso, il proprio volto nel cuore della Madre Celeste, chissà cosa Le avrà detto.
A me piace pensare che la Madre della Tenerezza, in tutta risposta, lo abbia definitivamente abbracciato, là dove la vera giustizia si compie, mentre giù, su quel selciato, ai piedi della Cattedrale, ai piedi della Chiesa, altre mani, di zelanti soccorritori del 118, tentavano, anche loro, di riportarlo in vita, senza preoccuparsi se fosse meritevole o meno, ma solo perché la vita, qualunque vita, vale la pena tentare di salvarla, sempre. Non vorremmo che questo fosse fatto a noi?
Per questo il compito educativo non può smettere, né per Emanuele, affidandolo alla Misericordia di Dio, né per chi ancora aspetta qui, di avere la possibilità che ha avuto lui, di poter ricominciare a vivere da uomini liberi. Liberi dall’esito, ben sapendo che è nelle mani di Dio, ma agendo come se tutto dipendesse da noi.
Fonte: Dontatella Mega | IlSussidiario.net