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Nembrini: «Il Cristianesimo è la pienezza della verità sull’uomo»

Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”.
In questa intervista è protagonista Franco Nembrini che ha dedicato la sua vita all’educazione delle giovani generazioni, proponendo interessanti indagini intorno ai grandi autori della letteratura: da Dante a Manzoni, da Leopardi a Milosz passando per Collodi. Nell’ultimo periodo quaresimale, è stato anche impegnato a tenere degli incontri sulla
Divina Commedia per la Diocesi di Roma.

Conosco Franco Nembrini da qualche anno oramai e, nonostante non ci si senta tutti i giorni, c’è con lui quell’amicizia profonda tipica del Medioevo (e questo è un suo insegnamento), dove il rapporto si rinsalda e si sostiene perché si posa lo sguardo sulla stessa grandiosa realtà: divieni e sei amico perché tu hai guardato laddove anch’io ho posato il mio sguardo. Più è grande quello che si è condiviso e più è forte il legame, perché se ne rimane colpiti, “meravigliati” (in senso aristotelico), quasi estasiati dalla bellezza contemplata. Rammento di aver incontrato Franco per la prima volta a casa mia, per parlare della fiaba di Pinocchio come riletta da Giacomo Biffi: «Il Cardinale nel suo insuperabile commento teologico aveva intuito che – e l’intuizione secondo me è assolutamente pertinente! – dovendo parlare a dei bambini, Collodi ha dovuto ritrovare la propria infanzia, che era stata cristiana. A mio parere, è una spiegazione stupenda! Se è vero che la storia di Pinocchio è in qualche modo la metafora dell’ortodossia cattolica, si ritrova qui ciò che a sua volta scopre l’autentico uomo di fede: la Chiesa non è un’alternativa all’umanità, ma dice le cose che tutti gli uomini vivono e sentono, portandole alle loro estreme conseguenze. Il Cristianesimo è cioè la pienezza della verità sull’uomo; ma la Chiesa spiega quel che l’uomo è già, e ne esalta all’ennesima potenza proprio la natura, le esigenze, i bisogni. Non c’è niente che la Chiesa affermi che sia contro l’uomo; essa è sempre per l’uomo anche quando esige. In questo senso, come premessa, dico sempre a chi mi ascolta – e lo faccio anche quando mi occupo di Dante –: “A me non interessa se voi siete cristiani, oppure no…”».

L’aggancio al Sommo Poeta mi costringe a interrompere Franco: devo ringraziarlo pubblicamente perché è riuscito a far rinascere in me (come, immagino, in tante altre persone) il desiderio di rileggere la Divina Commedia con interesse, cioè come capacità di andar dentro all’essere delle cose. Per questo il mio libro su Dante Il desiderio di vedere Dio è a lui dedicato. Amore e misericordia in Dante è il sottotitolo, e quindi chiedo: ha senso parlare di misericordia nella poetica dantesca? «Certo, ha un significato importantissimo! Provo a rispondere o meglio ad accennare una risposta alla domanda, incentrando l’attenzione sul Paradiso, dove si scopre che Dio è misericordia e questo è il centro dell’annuncio cristiano! Se è vero che Dante ha avuto la pretesa di spiegare qualcosa di Dio, a tema c’è la misericordia, anche se lui usa questo termine pochissime volte in tutta la Divina Commedia. In Dante la parola “misericordia” è un sinonimo della parola amore; quando diciamo: “Dio è amore”, potremmo anche affermare: “Dio è misericordia”. Proclamiamo la stessa cosa, perché la grande intuizione di Dante (che credo percorra tutta la Commedia e la motivi anche) è proprio questa. È la scoperta che siamo al mondo per un atto d’amore, che l’amore, essendo la realtà creata da Dio, ne conserva l’impronta e quindi tutta la realtà soggiace alla legge, all’unica vera legge, che è appunto la legge dell’amore. A me quello che impressiona della Divina Commedia è appunto il disegno complessivo, cioè uno la legge, arriva in fondo, e quel che gli rimane è che tutto sia bene, tutto! L’intera realtà è bene ed è segno dell’amore con cui Dio ci ha voluti con un atto di gratuità impressionante: non c’eravamo e non dovevamo esserci. Nulla, infatti, obbligava Dio a fare in modo che io ci fossi e, invece, io ci sono. È questo – mi vien da dire – il grande annuncio del cristianesimo, completato in senso stretto dalla salvezza operata da Cristo, che altro non è che il ripristino di questa volontà originale del Padre. È il riaffacciarsi nella storia di questa volontà originale che Dio ci ha voluti con un atto di una gratuità assoluta, totale: non eravamo a Lui necessari, eppure, in un momento indefinito della sua eternità, ha definito bello/buono che noi ci fossimo. Dico sempre che se leggere la Divina Commedia aiutasse i nostri giovani anche solo ad avere questo sentimento di sé, riconoscendo la dignità grande che hanno ricevuto in dono, avremmo fatto un passo educativo formidabile. Ai ragazzi a scuola lo spiego, per semplicità, in questo modo: se quando vi alzate al mattino vi venisse familiare avere un sentimento di tenerezza per voi stessi, un sentimento di bellezza, e diceste ogni mattina guardandovi allo specchio: “Ecco, è una cosa buona”, la giornata, anzi l’esistenza, cambierebbe radicalmente. È lo stesso che ha fatto Dio quando creava le cose e tutte le sere andava a letto contento, dicendosi: “Dai, sono stato bravino, ho fatto le cose bene. Che bello che ci siano le stelle, il mare, il cielo”. Ma quando fa l’uomo aggiunge il superlativo: “vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” [Gen 1, 29]. Questo sentimento di stima, di dignità, di grandezza si scontra, invece, con il ritornello ossessivo che sentiamo ormai dominare nella cultura della nostra società e dei nostri ragazzi in particolare: “Che schifo! Fa schifo la vita, fa schifo la scuola, fa schifo la famiglia, fa schifo la Chiesa…”. è un sentimento di rifiuto verso la realtà che arriva nelle persone più fragili e diventa un rifiuto di tutti i rapporti. Voglio dire, invece, qualcosa di meraviglioso: leggere Dante ha il potere di permettere di riconciliarsi con noi stessi, anche con le ferite, a volte tante, spesso dolorose».

M’interrogo: in questo senso, arrivare in Paradiso per il Poeta è poter contemplare Dio non come qualcosa di astratto, ma ciò per cui ogni singola realtà ha un senso: «Esattamente, e a tal proposito mi preme dire qualche aspetto di ordine generale. Il primo: se penso al Paradiso va spazzata via l’eredità che abbiamo ricevuto, mediamente, dalla tradizione scolastica. La scuola, ahimè, e in Dante lo si vede in modo clamoroso, spesso sortisce l’effetto opposto a quello che si desidererebbe e cioè fa “odiare” ciò che si dovrebbe far “amare”. Per cui ha lasciato in tanti di noi, anche grandi, un ricordo nefasto della Divina Commedia. Tant’è che nell’introduzione all’Inferno anch’io ho fatto una piccola dedica, e mi sono tolto un po’ il sassolino dalla scarpa, scrivendo che il testo era rivolto ai pochi che non avevano mai letto la Divina Commedia e ai molti che avevano giurato di non leggerla mai più. Se penso poi al Paradiso, è la cantica che non ha mai letto quasi nessuno, perché la tradizione scolastica è a piramide: tanti canti dell’Inferno (non so perché piacciano tanto), un po’ di Purgatorio e tendenzialmente niente Paradiso. Vuoi perché il programma è di quinta superiore e c’è l’esame di Stato, ma credo e temo soprattutto perché non si capisce la Divina Commedia e, d’altronde – lo dico proprio senza presunzione –, non si può comprenderne il senso se non ci si sforza di entrare. Al contrario, la cantica più bella e più poetica è proprio l’ultima, laddove si chiarisce lo scopo e la ragione profonda di tutti i passi che sono stati fatti a partire dalla selva oscura. Che si sostenga, invece, che il Paradiso è difficile perché teologico diventa un insulto a te, don Samuele, in quanto teologo di professione. Suggerisce, infatti, che ciò che è teologico non c’entra niente con l’esistenza e debba essere scartato a priori. Personalmente, invece, ho fatto la scoperta che quando una cosa è teologica è supremamente interessante e concreta per la vita…».

Mi soffermo sull’idea erronea di “teologia” (e forse anche di una mentalità sempre più anticristiana) che non permette di cogliere la bellezza del “discorso su Dio”. Oggi ci sono due derive nella comprensione di cosa sia questa disciplina. La prima è di ridurla a un pensierino edificante, a volte addirittura costruito con riflessioni molto superficiali, dimenticandone il metodo e il rigore scientifico. Dall’altra, il rischio è pensare alla sacra dottrina come il frutto di discorsi astrusi, iperuranici e in definitiva inutili per la vita, mentre si basa sul ragionamento e non sull’istinto emozionale del momento; cerca la verità, non l’opinione momentanea.

«Perciò – prosegue Nembrini –, il percorso che Dante fa lungo il Paradiso è di comprensione dei due misteri principali della fede, che sono quanto di più teologico si possa immaginare. Il Poeta vuole arrivare alla fine e rispondere a queste due questioni. Quando ero piccolino a catechismo ho imparato i misteri principali della fede. Tra parentesi: mi sono sparato mille nozioni a memoria e non mi sono pentito perché c’erano delle specie di concorsi e ho vinto tre volte un pallone di cuoio bellissimo e fiammante che altrimenti non mi sarei mai potuto permettere. Bene, ho imparato i due misteri principali della fede: l’unità e la trinità di Dio: incarnazione, passione, morte e resurrezione. E uno potrebbe esclamare: “XXXIII canti per indagare queste due cose… quello non aveva niente da fare!”. Eh no, non è così, perché se è vero, come è vero, che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, quei due misteri sono i due misteri principali della fede e riguardano la natura di Dio. Inoltre, se io sono fatto come Dio, cioè ne conservo l’immagine, quei due misteri spiegano la mia di realtà, dicono qualcosa di radicale, di definitivo (non di definitorio) riguardo alla natura dell’uomo. Si deve, quindi, leggere il Paradiso scoprendo che, man mano, più si chiarisce il mistero dell’unità e della trinità di Dio e più si chiarisce quel dramma che viviamo tutti del rapporto tra complessità e semplicità, tra unità della persona e rapporto con l’altro. Insomma, le grandi domande: “Ma io se amo una persona alla quale consegno la vita mi realizzo o mi perdo? Nel rapporto con l’altro, con gli amici, con la Chiesa, nel rapporto con l’altro tanto importante e significativo sono più me stesso o vengo meno a me stesso?”. Siamo di fronte allora a una roba di una concretezza e di una decidibilità straordinaria; e lo si capisce se si guarda come è fatto Dio! E Dante – è proprio una cosa da fuori di testa – ha la pretesa di spiegarci come è fatto Dio. Ricordo che nel trentatreesimo del Paradiso egli ha messo a tema queste due verità teologali: innanzi tutto la visione dell’unità del tutto, come premessa, che si tiene in Dio. E Lui com’è? È Trinità e mistero dell’Incarnazione. Sono i due termini della grande visione finale ed è impressionante rendersi conto che Dio stesso è fatto proprio in tal modo. Ora, in poche battute, faccio fatica a sintetizzare, ma che Dio è Trinità vuol dire che ciascuno dei Tre per essere deve amare gli altri Due: si afferma nell’affermazione del valore dell’altro. Io sono tanto più io, sono io veramente, quanto più affermo te, tanto che Gesù dice ai suoi discepoli: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” [Gv 15, 13]. Dare la vita per l’altro, sta alla base della ragione dell’esistenza stessa e, quindi, l’affermazione di sé coincide con l’affermazione dell’altro. La grande menzogna della modernità, che stiamo pagando in modo carissimo, è la parola “individuo”. I nostri figli ragionano in quest’ottica (anche se non lo sanno): “Io sono tanto più libero quanto meno dipendo dagli altri, quanto più sono autonomo”, che è una fesseria anche dal punto di vista psicologico. Ciononostante, il mondo sembra funzionare così. Dante ci mostra che non è vero. La grande regola dell’essere è l’amore. La Divina Commedia è questa visione stupenda della realtà e spiega la natura di Dio come amore, cioè come Trinità. Si tratta, sì, di una legge che l’uomo può rifiutare».

È il mistero dell’Incarnazione, invece, a permette di comprendere e vivere appieno la libertà: «Sì, perché il mistero dell’Incarnazione risponde alle domande: “Dov’è Dio? Lo posso incontrare?”. E Dante ti racconta, a parte che lo racconta dall’inizio…». Rivedo qui la tesi che la Vita nova è il testo che fa da preludio alla Commedia: «Precisamente! Infatti, quando Dante vede Beatrice dice: “Questa ragazza ha a che fare con Dio. C’è qualcosa che mi fa presagire che con lei ci sarebbe qualcosa che mi farebbe raggiungere quella beatitudine a cui sono stato chiamato, quella promessa di bene (che è la vita) con lei si compirebbe”. Poi lei muore e il Poeta è costretto a chiedersi il motivo».

Mi convinco che Dante, nella Vita nova, intende dare un senso alla morte di Beatrice, la donna che non è semplicemente l’oggetto del desiderio, ma fonte di salvezza che conduce a vita nuova e fa emergere il nobile proposito di condividere con gli altri il bene ricevuto, un amore, cioè, che supera il limite dell’altro: «Esattamente e quando, nella Divina Commedia, la vede nella processione del Purgatorio (e fa cantare nel poema il Sanctus agli angeli e ai beati che ci sono intorno), lui la riconosce nel momento in cui in coro stanno cantando Benedetto colui che viene nel nome del Signore. E Dante ci ha lasciato il femminile: “Benedetto (maschile) colei (femminile) che viene nel nome del Signore”, facendo un’operazione che più incarnazione di così! E nel processo che il Poeta subisce in Purgatorio, Beatrice gli dice: “Tu non hai capito che io ero solo lo strumento col quale Dio ti veniva incontro; morta me, cioè denunciata e scoperta la fragilità dello strumento, dovevi andare al Creatore, a chi mi aveva fatta, per avere soddisfazione del desiderio; e, invece, ti sei rivolto a beni inferiori”. Insomma, tutta la Divina Commedia serve a spiegare che l’uomo, e in particolare l’uomo d’oggi, è amore, amore in quel senso che abbiamo descritto. Amore inteso come, mi viene da dire e forse dico una fesseria, corrispondente al Dio dell’eterno bisognoso, dell’eterno incompiuto. Nel senso che ognuna delle Tre persone divine deve continuare ad affermare le altre Due per essere; solo che in Dio questo dinamismo per cui l’amore fa essere è perfetto e continuo. Ed è quello che dà ragione del fatto che il Paradiso sia movimento. Mentre l’Inferno è definitivo, ma definitivo nella sua fissità tremenda, il ghiaccio dove nulla di nuovo potrà mai accadere, il Paradiso ha una sua definitività, ma di vita, ossia è movimento, è il continuo realizzarsi dell’essere nell’atto d’amore con cui ogni Persona della Trinità afferma le altre. Dante, per far capire ciò, chiude il Paradiso tra due versi che contengono lo stesso verbo di movimento. Il primo verso è: “la gloria di colui che tutto move”; e l’ultimo: “l’amor che move il sole e le stelle”, a dire che c’è questo infinito dinamismo, questo compiersi dell’amore, sia della natura di Dio sia della natura dell’uomo (affidato alla libertà). Ditemi se c’è cosa più concreta, più bella e chiara? Oltretutto detto come lo presenta Dante… Se andassimo a pescare la parola “desiderio” anche solo nel trentatreesimo del Paradiso, scopriremmo che è a tema, è il tema».

Ringrazio di cuore Franco che si è dedicato a rileggere tutta la Divina Commedia e si è soffermato anche su altri grandi autori come Manzoni, Leopardi e Milosz. Mi congedo da lui meditando sulle sue feconde parole e scopro che la concezione di Dante della vita umana – fondata sul retto ordine dei valori –, del suo senso e del suo fine, culmina nel primato della bellezza, della bontà, della verità e dell’amore misericordioso. Forse, ognuno è davvero chiamato hic et nunc a costruire – per quel che riesce – un anticipo di Paradiso.

Fonte: Samuele Pinna | IlTimone.org

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