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Cinema. «La stanza accanto»: Almodovar, l’eutanasia e una solitudine senza cura
— 13 Dicembre 2024— pubblicato da Redazione. —
Nelle sale italiane il film del regista spagnolo vincitore alla Mostra del Cinema di Venezia che racconta la fine per suicidio di una malata i cancro.
L’ultimo film di Pedro Almodovar La stanza accanto – premiato a Venezia, da qualche giorno nelle sale italiane – racconta di una donna, Martha, reporter di guerra, ammalata di tumore, che decide, a un certo punto della sua storia di malattia, di prendere la pillola del suicidio per non dovere attendere la morte ma per dettare, invece, lei i tempi del passo finale. In questo percorso chiede alla amica Ingrid (la quarta a cui lo chiede, dopo che altre tre amiche a cui si era rivolta avevano declinato l’invito) di dormire nella “stanza accanto” alla sua, quella in cui avrebbe assunto il farmaco letale acquistato sul web (da qui si capisce che ci si trova in uno Stato americano in cui eutanasia e suicidio assistito non sono ancora stati resi legali). Alla mattina, se la porta della stanza della malata sarà aperta il suicidio non sarà ancora avvenuto. Se la porta invece sarà chiusa il suicidio della malata sarà stato compiuto.
Ho in poche righe raccontato la trama perché mi pare che nel film, melodrammatico, non ci sia proprio niente di sorprendente, tutto è già ampiamente prevedibile fin da subito. L’unica cosa che stupisce è che nell’America attuale una ammalata di tumore sia costretta a ondeggiare tra le pretese degli oncologi di farle continuare le terapie che la aggrediscono pesantemente, ma non sono più efficaci, e la paura della morte imminente se non proseguisse queste terapie ormai inutili. Martha si lamenta perché le dicono che deve continuare a combattere quando lei sa che non serve, ma nessuno le offre una alternativa dentro una relazione di cura.
Non si vede nessuno che le stia vicino, nessuno che la accompagni, nessun medico o infermiere di cure palliative che con presenza umana e professionale allievi il suo peso, né uno psicologo, né un assistente spirituale, nessuno. Si potrebbe dire che è un film in ritardo di cinquant’anni, un film pre-Cicely Saunders: poteva essere stato girato prima di Cicely, l’infermiera inglese fondatrice delle cure palliative. Sulla sua vita lo scrittore Emmanuel Exitu ha pubblicato quest’anno per Bompiani un bellissimo romanzo intitolato Di cosa è fatta la speranza recensito su queste pagine qualche mese fa. La speranza fatta di rapporti, di ricerca di significato, di un limite accompagnato da una vicinanza umana. Cicely fu la prima a capire che di fronte a un dolore totale come quello di una persona che soffre (fisico, psicologico, sociale, spirituale) è necessario un approccio globale. E ancora, che «di fronte al Mistero della sofferenza innocente la risposta non è un ragionamento, ma una presenza». Cicely rese il rapporto di cura e di presa in carico una dinamica perfino bella e affascinante, tanto che definì l’hospice un «luogo di vita, di assistenza, di ricerca, e di formazione».
Nella storia di Martha nulla di tutto ciò, e in più una aridità e una solitudine umana incredibili. Una figlia che non ha mai amato la mamma (salvo forse farsi una domanda dopo la sua morte) per come erano andate le cose col babbo, una vita di sesso per sentirsi viva durante il difficile lavoro di reporter di guerra (che la costringeva a lasciare la figlia sempre sola), una storia di sesso omosessuale fra i due frati missionari nei territori di guerra (anche in questo caso per sentirsi vivi), un poliziotto violento che dopo il suicidio di Martha incalza Ingrid per sapere del ruolo da lei svolto e vuole vederci chiaro (naturalmente non in quanto poliziotto ma in quanto fondamentalista religioso), un pedante e noioso amico fissato con la morte del pianeta di cui tutti si è responsabili. In assenza di qualunque dedizione umana, emerge da tutte le parti la “nuova antropologia”: quella che ritiene che chiunque chieda aiuto scende di dignità in quanto non più indipendente, e allo stesso modo chi si prende cura di persone fragili scende anch’esso nei gradi della realizzazione umana.
Eppure… eppure, nonostante tutto, la natura dell’uomo di “essere domanda” emerge. In Martha, che non chiede una badante ma una amica, che se pure in modo anomalo la vegli. E in Ingrid che, se pur passiva e senza iniziativa personale, avendo scelto una camera non “accanto” ma al piano di sotto, tutte le mattine sale con trepidazione e uno sguardo speranzoso ogni volta di trovare aperta la porta, e non chiusa.
Fonte: Marco Maltoni* | Avvenire.it * Medico specialista in Cure palliative
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