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La fattoria degli animali: la tragedia della sovranità tradita

Il presente contributo propone un’analisi filosofica del romanzo La fattoria degli animali di George Orwell, letta come una parabola sulla degenerazione dei sistemi ideologici e sulla crisi della verità nell’epoca del potere totalitario. Al centro della riflessione vi è la progressiva trasformazione del linguaggio e del pensiero, che attraverso una retorica manipolatoria e una riscrittura della memoria collettiva, rende possibile l’instaurarsi di una realtà fittizia in cui il dominio si maschera da liberazione. Ispirandosi alle categorie foucaultiane di biopolitica e discorso, il saggio indaga il ruolo della narrazione nella produzione della soggettività e nella giustificazione dell’oppressione, mettendo in luce la sostituzione del vero con il verosimile, del giusto con l’utile.

Introduzione: una favola politica senza tempo

George Orwell, con La Fattoria degli Animali (1945), ci consegna un’allegoria potente, apparentemente semplice ma profondamente complessa, che racconta la caduta di un ideale rivoluzionario trasformato in oppressione. Attraverso la rappresentazione della rivolta degli animali contro l’uomo-padrone e la conseguente presa di potere dei maiali, Orwell denuncia le dinamiche perverse del potere politico che, una volta conquistato, tende a corrompere e a tradire le promesse di libertà e uguaglianza.

In questo racconto, la crisi della sovranità popolare non è solo un fatto politico, ma un fenomeno culturale e spirituale che riguarda la perdita di un’identità condivisa e di una coscienza politica responsabile.

La trama: dalla rivoluzione alla tirannia

La fattoria di Mr. Jones rappresenta l’archetipo di un sistema di dominio fondato sullo sfruttamento sistematico dei più deboli, in cui gli animali, privi di voce e diritti, incarnano la condizione di una massa alienata e silenziata. L’ordine imposto da Jones, padrone dispotico e distratto, simboleggia l’autorità arbitraria del sovrano assoluto, nella quale il potere non è soggetto a limiti morali o giuridici. La ribellione degli animali – evento che dovrebbe segnare la nascita di una nuova sovranità fondata sull’eguaglianza – assume così il carattere di una rivoluzione nel senso classico, ossia di un tentativo di rifondazione radicale dell’ordine politico.

Guidata dai maiali, che sin dall’inizio si ergono a interpreti del pensiero rivoluzionario (il Vecchio Maggiore come figura profetica), la rivolta è animata da ideali di giustizia, solidarietà e libertà. Il principio secondo cui “tutti gli animali sono uguali” si configura come un patto fondativo, una sorta di contratto sociale destinato a superare l’iniquità dell’ancien régime. Tuttavia, la promessa di un’eguaglianza universale è presto svuotata dall’interno: i maiali, custodi della parola e del sapere, assumono progressivamente una posizione dominante, sfruttando l’ignoranza degli altri animali per riscrivere la verità, modificare le leggi, e consolidare il proprio potere.

In questo contesto, Orwell mette in scena un dramma politico-filosofico che richiama la riflessione di pensatori come Platone, Machiavelli, Marx e Foucault. Se in Platone l’ideale della giustizia richiede la guida dei “filosofi-re”, in Orwell i “maiali-re” diventano invece tecnocrati del potere, corrotti dalla stessa struttura che intendevano riformare. Il motto finale, “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri”, non è solo una contraddizione logica: è la sintesi di un tradimento ontologico del principio di uguaglianza, la consacrazione dell’ipocrisia istituzionalizzata.

La degenerazione della fattoria, da collettività liberata a regime autoritario, rivela una verità inquietante: la sovranità, quando non è fondata su un controllo effettivo dei cittadini e su un’etica della responsabilità, si converte facilmente in nuova tirannide. La parabola orwelliana mostra come ogni sistema politico – anche il più giusto nei suoi intenti originari – sia esposto alla tentazione della verticalità del potere e alla manipolazione del linguaggio come strumento di dominio. La Fattoria degli animali diventa così una riflessione acuta sulla crisi della democrazia e sulla necessità di una vigilanza critica da parte del corpo politico, senza la quale anche la più nobile delle rivoluzioni può finire per riprodurre i meccanismi dell’oppressione che voleva abbattere.

Il tradimento della sovranità: potere e identità

La parabola orwelliana è la rappresentazione plastica, quasi mitica, di un problema che attraversa ogni società che smarrisce il senso della propria sovranità: la deriva del potere quando non è più radicato in una coscienza collettiva vigile, critica e consapevole. La fattoria degli animali ci mostra come l’emancipazione, se non è sostenuta da un solido impianto culturale, educativo e morale, rischia di rovesciarsi rapidamente nella sua antitesi. La rivoluzione degli animali nasce come atto collettivo di liberazione, spinta da un anelito autentico alla giustizia e all’autodeterminazione. Tuttavia, la fragilità dei soggetti rivoluzionari, privi di strumenti critici, di memoria storica e di partecipazione attiva alla vita politica, apre la strada a nuove forme di dominio, incarnate da élite autoreferenziali che si impongono non più con la forza, ma con l’inganno, la manipolazione simbolica e il controllo del linguaggio.

In questa trasformazione si svela la crisi più profonda: la perdita dell’identità comunitaria e la rinuncia alla sovranità non sono semplicemente un mutamento nelle strutture di potere, ma un collasso culturale e spirituale. Orwell suggerisce che l’oppressione più efficace non è quella che si impone dall’esterno, ma quella che si insinua nel cuore stesso della collettività, trasformando l’ideale condiviso in dogma, la coscienza in obbedienza, la memoria in propaganda. In assenza di un ethos comune, di un patto valoriale condiviso, la libertà perde la sua sostanza e si riduce a formula vuota, funzionale solo a legittimare nuovi assetti di dominio.

L’alienazione della sovranità si rivela così come un processo progressivo di deresponsabilizzazione, in cui il popolo — rappresentato dagli animali più ingenui e sfruttati — abdica alla propria funzione critica, delegando interamente la gestione del potere a una minoranza tecnocratica e autoritaria. L’illusione della libertà, quando disgiunta dalla partecipazione consapevole, dalla memoria storica e dal dialogo etico-politico, diventa il più potente strumento di oppressione. È questo il cuore filosofico della distopia orwelliana: un monito tragico ma necessario, che ci ricorda come la libertà non sia uno stato naturale da preservare, ma una conquista culturale da difendere, giorno dopo giorno, nel pensiero e nella prassi.

Le radici culturali come fondamento della libertà

Orwell ci avverte, con la forza della parabola e la lucidità del pensiero politico, che non può esistere una vera uguaglianza, né una libertà sostanziale, se non si parte dalla difesa e dalla custodia delle radici storiche, culturali e spirituali che costituiscono l’identità profonda di un popolo. L’errore fatale della comunità animale, nella Fattoria, è quello di credere che la liberazione politica possa prescindere da una coscienza storica consapevole, da una cultura condivisa e da un sistema di valori interiorizzati. In realtà, la sovranità non è mai un fatto meramente istituzionale o tecnico, né può essere ridotta alla sfera della rappresentanza o dell’organizzazione dei poteri. Essa è, in senso pieno, una condizione esistenziale, ontologica, che riguarda il modo in cui una comunità concepisce se stessa, si narra, si trasmette e si riconosce nella propria memoria collettiva.

Quando una società smette di custodire le proprie radici — storiche, culturali, simboliche — e apre la porta a modelli imposti dall’alto, spesso travestiti da progresso, razionalizzazione o modernità, essa non si emancipa, ma si disgrega. La perdita delle radici comporta la perdita della capacità di giudizio, della lingua comune e della coesione morale. In questo vuoto, il potere trova terreno fertile per reinventarsi in forme nuove, più subdole, che si presentano come liberatorie mentre instaurano meccanismi di controllo più efficaci proprio perché interiorizzati. È la libertà stessa, allora, che si svuota di senso: non più esperienza viva della dignità umana, ma simulacro funzionale a una narrazione dominante.

In questo senso, Orwell non denuncia solo la dittatura palese, ma ci mette in guardia contro la deriva delle democrazie svuotate del loro spirito, ridotte a gusci procedurali incapaci di formare cittadini, di alimentare pensiero critico, di coltivare un ethos comunitario. La vera libertà — ci suggerisce — non può essere garantita da nessun apparato se non è sostenuta da una cultura del limite, della memoria e della responsabilità. Dove queste vengono meno, la sovranità si trasforma in un’illusione, un bene apparente di cui il popolo si priva da sé, consegnandosi a poteri che, benché “nuovi”, perpetuano la logica antica dell’oppressione.

Un monito per l’Europa contemporanea

Orwell ci avverte, con la forza della parabola e la lucidità del pensiero politico, che non può esistere una vera uguaglianza, né una libertà sostanziale, se non si parte dalla difesa e dalla custodia delle radici storiche, culturali e spirituali che costituiscono l’identità profonda di un popolo. L’errore fatale della comunità animale, nella Fattoria, è quello di credere che la liberazione politica possa prescindere da una coscienza storica consapevole, da una cultura condivisa e da un sistema di valori interiorizzati. In realtà, la sovranità non è mai un fatto meramente istituzionale o tecnico, né può essere ridotta alla sfera della rappresentanza o dell’organizzazione dei poteri. Essa è, in senso pieno, una condizione esistenziale, ontologica, che riguarda il modo in cui una comunità concepisce se stessa, si narra, si trasmette e si riconosce nella propria memoria collettiva.

Quando una società smette di custodire le proprie radici — storiche, culturali, simboliche — e apre la porta a modelli imposti dall’alto, spesso travestiti da progresso, razionalizzazione o modernità, essa non si emancipa, ma si disgrega. La perdita delle radici comporta la perdita della capacità di giudizio, della lingua comune e della coesione morale. In questo vuoto, il potere trova terreno fertile per reinventarsi in forme nuove, più subdole, che si presentano come liberatorie mentre instaurano meccanismi di controllo più efficaci proprio perché interiorizzati. È la libertà stessa, allora, che si svuota di senso: non più esperienza viva della dignità umana, ma simulacro funzionale a una narrazione dominante.

In questo senso, Orwell non denuncia solo la dittatura palese, ma ci mette in guardia contro la deriva delle democrazie svuotate del loro spirito, ridotte a gusci procedurali incapaci di formare cittadini, di alimentare pensiero critico, di coltivare un ethos comunitario. La vera libertà — ci suggerisce — non può essere garantita da nessun apparato se non è sostenuta da una cultura del limite, della memoria e della responsabilità. Dove queste vengono meno, la sovranità si trasforma in un’illusione, un bene apparente di cui il popolo si priva da sé, consegnandosi a poteri che, benché “nuovi”, perpetuano la logica antica dell’oppressione.

Fonte: Daniele Onori |  CentroStudiLivatino.it

Bibliografia essenziale

  • George Orwell, La Fattoria degli Animali, Mondadori, 2022.
  • Massimo Cacciari, Sulla città e altri demoni, Adelphi, 2018.
  • Norberto Bobbio, Diritto e Stato nel pensiero moderno, Einaudi, 1991.
  • Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Mondadori, 2017.
  • Carl Schmitt, Teologia politica, Adelphi, 2014

 

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