Si è spento Totò Schillaci ma non i suoi occhi spiritati, cioè pieni di spirito, e lo spirito, se non è alcol, è grazia, vita che non si consuma, quella che rinnova il mondo morto, dandogli nuova energia creativa e quindi gioia. Una grazia che illuminò le estive notti italiane del mondiale ’90, con sei goal, uno più inatteso dell’altro, perché così è la grazia: gratis. Terzi e amareggiati per mesi, in realtà, nell’anima, sollevammo la coppa, perché la grazia è una gioia che non svanisce e sopravvive ai risultati quantificabili. Una gioia che infatti è ancora intatta nei cuori già battenti a fine millennio scorso, e non come nostalgia di un mondo andato ma come ispirazione per uno sempre e ancora da fare.
C’ero anch’io. Avevo 13 anni, l’estate era quella tra terza media e superiori, libera da compiti se non sognare il futuro e averne paura. Quell’estate lessi Il Signore degli Anelli e scoprii che mille pagine sono poche quando un libro ti regala amore per la vita. Fu un’altra grazia: nell’angolo fisico in cui mi rifugiavo a leggere posso tornare quando voglio, perché ora quell’angolo l’ho dentro. I libri magici fanno questo: una casa, ovunque tu sia. In quell’estate imparai l’alfabeto greco. Avrei iniziato il liceo classico e mia madre mi insegnò a leggere in quella lingua di cui conoscevo solo il minaccioso pi-greco. Un’estate lunga una vita: un’estasi. Perché? E che c’entra Totò?
Quell’estate fu piena di semi: non sapevo che sarei diventato professore e scrittore, come l’autore del Signore degli Anelli, che mi sarei dedicato al genere di quel romanzo, l’epica, e che il greco sarebbe stata la via. Ma dovevo capirlo che sarebbe stata un’estate magica, perché i primi segni della grazia furono proprio i goal di Totò Schillaci, un ragazzo cresciuto in un quartiere difficile della mia città, che pronunciava le vocali sempre troppo aperte come i suoi occhi. Il pallone lo aveva salvato dalla strada, e gli occhi spiritati tradivano la fame di gioia e la sete di goal, perché lo spirito è la vita che vuole avere origine in e da noi, ispirandoci a essere e fare quello che possiamo essere e fare solo noi.
Totò non aveva la classe di Baggio con cui duettava nella squadra in cui entrò per sostituire l’infortunato Vialli. Nessuno credeva in lui, come io non credevo in me, a 13 anni, tutto paure e sogni. Ma quando Totò entrò dalla panchina in cui ci sentiamo tutti a quell’età (e non solo), lui che da bambino si chiedeva se avrebbe mai avuto i soldi per vedere allo stadio una partita della Nazionale, il miracolo accadde: segnò (noi palermitani diciamo segnò anche a goal appena fatto, perché il nostro passato remoto indica sì un’azione compiuta ma con un esito irreversibile e fatale, per il quale il passato prossimo non basta). «Quel sogno che comincia da bambino e ti porta sempre più lontano», cantato da Bennato (altro creatore di magia per me con le sue canzoni ispirate a Pinocchio e Peter Pan) e Nannini, divenne realtà, perché la magia (bianca) è quella che porta il mondo a compimento e dà gioia agli altri usando la bacchetta del talento ricevuto.
A ogni goal di Totò, le urla e le bandiere esplodevano liberatorie, perché quell’uomo del sud riscattava se stesso e un’intera città: la Palermo di inizio decennio non era solo mafia e degrado. Lo seppe tutto il mondo grazie al sogno di un bambino che rincorreva il pallone per strada: la sua, a Palermo, si chiamava profeticamente via Sfera. Per questo la magia era ancor più sorprendente: il suo tocco sbucava dal nulla, dal suo calcio di strada. Quello che fece dopo, in campo e fuori, per me conta poco, sarebbe rimasto l’eroe epico dei ‘90. Aveva inaugurato il decennio che, dando il la al resto della mia vita tra superiori e università, si sarebbe chiuso con la laurea e l’inizio dell’insegnamento. Quell’eroe così quotidiano mi trasmise la sua fame di vita, nei suoi occhi spiritati vidi quello che voglio avere negli occhi fino a che li terrò aperti. È vero ciò che scrive Natalia Ginzburg nelle Piccole virtù: «Che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita? Una vocazione, una passione ardente ed esclusiva per qualcosa… Amare questa cosa al di sopra di tutto, di qualunque privazione, perché l’unica fame e l’unica sete sarà la passione stessa, che avrà divorato tutto quanto è futile e provvisorio, e regnerà sola sullo spirito. Una vocazione è l’unica vera salute e ricchezza dell’uomo».
Totò aveva quella fame, Totò era quella sete. Era grato soprattutto al padre: «Giocavo sull’asfalto del quartiere CEP, uno dei più difficili di Palermo. Famiglia modesta, tre fratelli e una sorella, papà faceva il muratore. Era il mio primo e più grande tifoso, mi ha accompagnato dappertutto pur di farmi giocare. Io ho cercato di aiutare: ho fatto il gommista, il garzone di pasticceria, l’ambulante…». Un padre che ha fatto il padre, perché, come dice ancora la scrittrice (nata anche lei a Palermo, ma in via Libertà, ognuno ha le sue vie) sul ruolo dei genitori nella vocazione dei figli: «Questa è l’unica possibilità che abbiamo di riuscir loro di aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l’amore alla vita genera amore alla vita». In quell’estate del 1990, tra libri e lettere greche, fui iniziato alla magia della vita grazie al sogno inseguito da un bambino nelle vie della periferia della mia città: un pallone. Non sollevò la coppa ma permise e permette (con un centro sportivo per i ragazzini che avrebbero altrimenti solo la strada) a molti di sognarla. Grazie, Totò, per quelle braccia così aperte da farci stare un popolo che si unisce, da sud a nord, quasi solo con il calcio; grazie per quegli occhi spiritati, perché il mondo è così bello che a guardarlo bene le orbite non bastano; grazie per avermi mostrato che il sogno di un bambino, se qualcuno crede in lui, è un dono mondiale. Solo così la morte ci coglierà ancora vivi.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it