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Mamma a 63 anni, è giusto?

a scienza ci permette di fare tutto o quasi. Ma cosa ruota e cosa si gioca attorno al tema vita? Un commento di Silva Da Dalt

La frequenza degli accadimenti o dei fatti sociali porta spesso all’assuefazione, alla normalizzazione, tanto che ciò che in precedenza suscitava delle reazioni in termini di pensiero o emozioni, poi passa quasi inosservato, proprio perché percepito come normale. Può accadere che non ci meravigli più lo sbocciare di una rosa o non ci addolorino i numeri dei morti per denutrizione. Normalizzare ci fa quindi, in qualche modo, disumanizzare. La recente notizia della donna della provincia di Lucca che dà alla luce un figlio all’età di 63 anni grazie alla fecondazione assistita effettuata in una clinica di Kiev ci ha fatto avere, invece, una reazione, perché ci stimola ad interrogarci nuovamente in merito al tema del cosiddetto “diritto al figlio”.

Si può fare tutto ciò che si può fare? Qui non si tratta di giudicare nessuno, ma di sentirci chiamati a prendere una posizione rispetto alla direzione che sta prendendo l’umanità in merito alla vita.

Partiamo da una considerazione. Da sempre l’essere umano ha una forte spinta all’onnipotenza, al superamento del limite in quanto limite o del limite in quanto blocco al proprio soddisfacimento. Solo che qui stiamo parlando di controllo della possibilità di vita, di controllo della generatività. Stiamo parlando di ritenere possibile tutto ciò che la scienza e il progresso medico rendono possibile. Dalla contraccezione, alla fecondazione eterologa, al cosiddetto utero in affitto, all’interruzione volontaria di gravidanza, tutto ciò che ruota attorno alla vita sembra governato dal controllo, dalla dinamica dell’oggetto, anziché dal mettersi a suo servizio in maniera grata e gratuita. Nascere dal desiderio d’amore di due persone non è lo stesso che nascere dal “lo voglio e allora lo compro” di una singola persona. Mi rendo conto dell’espressione provocatoria, ma tecnicamente ci sono state due persone a vendere i loro gameti, una clinica a vendere l’embrione e una donna a comprarlo. Sentiamoci pure provocati, perché è evidente che la direzione dell’umano è verso la lusinga continua dell’onnipotenza, del rifiuto del limite in nome del “lo voglio, lo voglio” (direbbe un bimbo). Esorcizzare lo spettro della caducità e del limite, per citare Recalcati, è una sorta di patina che acceca il nostro discernimento su ciò che è bene e ciò che non lo è. Questa cecità dove potrà condurci se non al non saper più come controllare la frana delle conseguenze che, oltretutto, ancora non conosciamo? Un bambino con una storia sconosciuta dentro di sé, con un DNA intessuto di vissuti e anche di eventuali traumi dei suoi antenati; un bambino che durante la gestazione avrà verosimilmente assorbito cortisolo (ormone dello stress, tossico per il cervello e lo sviluppo) per le ansie e i timori di una madre sicuramente preoccupata (il primo tentativo di fecondazione si era concluso con un aborto spontaneo); un bambino che potrebbe essere poi accudito in maniera iperprotettiva, perché tanto desiderato, e che forse faticherà, quindi, ad uscire dalla simbiosi, anche perché di figura paterna non c’è traccia in questa vicenda; un bambino che si troverà nel pieno della sua adolescenza a doversi relazionare con una madre anziana: può davvero dirsi un bambino salvaguardato e difeso nel suo diritto al benessere?

Qualcuno sicuramente potrebbe osservare che nessuna famiglia è perfetta, che ogni figlio nasce esposto alla possibilità di non essere accudito in maniera adeguata. Ma qui si tratta di decidere dove sia meglio costruire la casa, se sulla roccia o sulla sabbia. Possiamo e dobbiamo dire che abbiamo la responsabilità di quella roccia.
La protezione amorevole e competente della vita, che è diritto in quanto dono, deve tornare ad essere un valore assoluto e universale, il filtro attraverso cui setacciare le scelte personali, politiche e sociali. Prendiamo posizione, prendiamo un’altra direzione.

Fonte: FamigliaCristiana.it

 

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