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Più che un libro un’occasione di crescita

Domani (giovedì 18) sarò alle 14 su Rai1 a parlare di denatalità. Pur essendo io sempre un po’ Alice nel paese delle meraviglie quando vado in tv, stavolta alla fine della telefonata con l’autore – al quale, poraccio, ho raccontato metà della mia vita, dai pesci rossi all’allattamento passando per le politiche fiscali europee – mi sono almeno ricordata di chiedere chi fossero gli altri ospiti, perché da quello di solito si può intuire quale sarà l’andamento della trasmissione.

Lo so che la logica della tv, anche di quella garbata che non cerca necessariamente la rissa, è quella di mettere insieme punti di vista diversi, però bisogna un po’ prepararsi a dire le cose giuste in quaranta secondi. Ho scoperto quindi che ci sarà l’autrice di un libro che afferma che le donne devono essere libere di scegliere se fare figli o no (come se la contraccezione non ci avesse già fin troppo liberate, consegnandoci una scelta che molto spesso gestiamo senza consapevolezza) e che quelle che lo fanno perdono sicuramente qualcosa nel campo professionale, perché “Chi riesce a tenere insieme carriera e figli in una società che ti vuole performante, solitamente ce la fa grazie a una situazione di privilegio. Il mito del “puoi essere tutto quel che desideri” anche da mamma è una bugia che fa male alle madri”.

Mentre leggevo l’intervista a questa collega, mi compariva sempre più netto il volto della mia amica Elisabetta Buscarini che alzava il sopracciglio e diceva il suo “ma figurati”, che è una specie di sentenza di Cassazione. Elisabetta ha avuto quattro figli (il settimo e l’ottavo nipote sono in preparazione) ed è primario di gastroenterologia , specialità di cui è stata anche presidente dell’associazione nazionale, autrice di studi e pubblicazioni molto quotata. E per dire alle altre donne che sì, si può fare, ha scritto un libro, (Al Mio Posto, confidenze quasi serie sul mestiere di Moglie Mamma Medico) , che, oltre a raccontare la sua storia, solleva molti temi, mooolto (con tre o) interessanti. Temi sui quali ogni donna, che abbia figli o no, che lavori o no, mette la testa prima o poi nella vita.

Non sempre io e lei siamo d’accordo su tutto, ma sempre facciamo un lavoro (i nostri mariti pensano che chiacchieriamo insieme al telefono, ma noi stiamo lavorando in realtà) su noi stesse, cercando di capire come stare al meglio nella nostra vocazione, che è fatta di tanti ruoli e di molte variabili. Per molti anni, per esempio, io ho invidiato le mamme a tempo pieno, ma lei che è poco più avanti nel cammino della vita, è sempre stata più di me una sostenitrice della bellezza del lavoro fuori casa. Io penso che sia bellissimo poter contribuire a rendere il mondo un posto migliore anche al di fuori della famiglia, ma che ci deve essere concesso di farlo con uno stile femminile, dove cioè le esigenze del lavoro di cura vengano contemplate come un diritto, e non come una concessione. Su questo credo che ogni donna abbia da dire la sua, e come dicevo le variabili sono tante. Quello che è intollerabile è che la scelta sia forzata dalla necessità economica, come purtroppo avviene in tanti casi (la Costituzione irlandese, per esempio, grazie al fatto che il referendum proposto per abrogarlo ha fallito, ha mantenuto l’articolo che afferma che le donne che non vogliono lavorare fuori casa non siano costrette a farlo per bisogno).

Sono questioni di cui ho scritto tanto (soprattutto in Quando eravamo femmine) e non posso qui riaprire tutti i temi, di queste cose bisogna chiacchierare due a due, se possibile davanti a una tazza di caffè o anche a un biberon, oppure si possono fare incontri come quello di qualche sera fa a Piacenza, dove dopo la presentazione del libro di Elisabetta c’è stata una specie di condivisione comunitaria delle esperienze di maternità, che ha fatto toccare con mano ancora una volta come le donne che sanno fare rete insieme sono una benedizione, sempre, e un aiuto reciproco. L’esempio e l’esperienza delle altre sono una grande consolazione, un incoraggiamento, e dovremmo cercare di farle circolare. Ci sarebbe da parlare di nuovi schemi lavorativi (tipo che negli anni dei figli piccoli, caro datore di lavoro, mi dovresti regalare delle agevolazioni, perché i figli sono un bene della società, che ti restituirò quando sarò matura ed esperta), di politiche fiscali, di educazione dei figli, di gestione della casa, di paternità, di differenza tra carriera e lavoro, di senso profondo di tutto (lavori per realizzarti o per servire?). Intanto, questa è la mia prefazione a un libro che provoca la riflessione di tutte.

 

Innanzitutto faccio outing. Io sono quella Costanza che compare nel libro come spacciatrice di rosari kitsch e infilatrice compulsiva di messe da condividere con Elisabetta in mezzo a giornate al cardiopalma in qualunque città riusciamo a incrociarci. Lo dico perché si deve sapere che questa non è la prefazione di una giornalista che valuta la riuscita di un’opera con occhio professionale, ma le parole di un’amica che ha il telefono di Elisabetta tra i preferiti, che considera la sua amicizia uno dei punti fermissimi della sua vita degli ultimi anni. E la considero tale esattamente da un’ora dopo il momento in cui ci siamo conosciute, a una messa – e dove sennò? – grazie all’invito di un’altra amica, e in un attimo ci siamo trovate a parlare fitto proprio di lavoro, figli, mariti, vita spirituale, cura di sé, amicizia. Cioè esattamente degli ingredienti che compongono questo libro. Eravamo sconosciute ma è stato subito chiaro a entrambe che ci univa un comune desiderio di essere mogli madri e lavoratrici secondo il cuore di Dio, e quindi era indispensabile fare un “lavoro” su noi stesse insieme.

Una volta confessato il mio punto di osservazione da amica, spero che ci si fidi lo stesso di me se dico che questo libro, che mi ha tenuta incollata in una lettura avida nonostante avessi – abbia, ahimé – molte altre scadenze da rispettare, è imprescindibile.  Andrebbe fatto leggere a tutte le giovani donne che si apprestano alle decisioni importanti della loro vita, tipo libro di testo obbligatorio. Perché ogni donna oggi, grazie a Dio, è libera di scegliere come comporre, tenere insieme, armonizzare i ruoli che ci è donato di ricoprire. Dico donato perché la cosa non è scontata, però forse bisognerebbe specificare che si tratta di un regalo ma anche di un dovere: tutte noi rispondiamo alla domanda con la d maiuscola. Che tipo di donna vorrei essere? La fatica di poter scegliere è un vero e proprio regalo che abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti di donne, e il primo merito del lavoro di Elisabetta è ricordarci la battaglia che ci ha portate alla libertà di votare, studiare, poter ambire a qualsiasi ruolo nel mondo del lavoro, cose non scontate fino a solo qualche decennio fa.

Il secondo, grande, merito è mostrare con il racconto della trama fittissima di una vita stupendamente feconda che è possibile scegliere tutto, come Teresina di Lisieux. È possibile, a costo di una disciplina da navy seal e una fede da vedova importuna, essere una figlia, una sposa, una madre, un medico, una scienziata, una zia, un’amica e poi una nonna, insomma una donna che cerca di mettere i suoi talenti a frutto, di fare meglio che può in ogni circostanza, nonostante a volte le condizioni in cui siamo chiamate a operare non siano eque.

E questo è il terzo merito: sollevare con lucidità la questione conciliazione dal punto di vista legislativo e anche culturale, dando un contributo che vale oro, una voce che invita a considerare con più attenzione e flessibilità il lavoro di cura che ogni donna deve e desidera fare. Non sono solo “fatti nostri”, sono fatti di tutta la società: ciò che siamo chiamate a fare riguarda tutti, ed è per il bene di tutti, non solo al lavoro, ma anche a casa.

Mi auguro che tante giovani donne leggendo queste pagine decidano di lanciarsi nella vita, di aprirsi alla vita accogliendo i figli che verranno ma anche scegliendo il lavoro col quale possano contribuire meglio al bene di tutti, pretendendo, non chiedendo ma pretendendo, sottolineo, di poterlo svolgere in un modo che non necessiti il loro annullamento come madri e come figlie, insomma come coloro che si prendono cura.

Un quarto merito è la gratitudine. L’autrice non dimentica nessuno di coloro che hanno contribuito a rendere la sua vita un capolavoro, dai bisnonni all’ultimo paziente incontrato in corsia, passando per tantissimi, tantissimi volti, a cominciare da quello che mi è più caro (e che è più caro a lei, soprattutto) quello del marito Nanni, prototipo di maschio base solidissimo con pochi optional ma funzionante alla perfezione (come la Land Rover, “quel che non c’è non si rompe”). E se come dice Chesterton la misura di ogni felicità è la riconoscenza, questo è un libro felice, felicissimo.

Il quinto merito è il non tralasciare nessuno dei temi che ci stanno o dovrebbero starci a cuore, tra cui la cura dell’aspetto e del vestire, ma prima, molto prima, il tema dei metodi naturali (detti anche “il metodo Tardelli”). Anche su questi temi la voce dell’autrice – perché anche se è medico qui secondo me siamo davanti all’opera di una scrittrice – è coraggiosamente estranea alla vulgata del mondo, come è stata ed è tutta la sua vita.

L’ultimo merito che vorrei menzionare infatti è la scrittura elegante e mai scontata, sicura e mai noiosa che rende questo racconto più simile a un romanzo che a un saggio, del quale conserva però la capacità di sollevare e affrontare questioni. Una vera sorpresa per me che credevo di conoscere la mia amica, di avere già potuto apprezzare tutti i suoi talenti, e invece non sapevo che avesse anche questo. Spero che ci sia almeno qualcosa in cui non riesca, altrimenti scatta l’invidia.

E qui veniamo all’ultimo punto. Il “nostro” padre Emidio – che compare anche qui – diceva che una donna non ammette che nel suo raggio di azione ci possa essere una donna migliore di lei in tutto. Ecco, io devo ancora trovare un ambito in cui Elisabetta non sia migliore di me. Una donna che dovesse leggere, magari in un punto della sua vita in cui le scelte decisive sono compiute, potrebbe provare un po’ di sgomento (leggi invidia, competizione, inferiorità). Ecco, io che la conosco, vi prego di credermi: questo libro non serve a dire “guardate come sono stata brava”, ma “forza, ragazze, potete farcela, costruite anche voi una vita feconda, senza paura, senza complessi”. E questa decisione di essere fonte di vita in ogni circostanza possiamo prenderla tutte, in qualsiasi posto siamo chiamate a stare, qualsiasi ruolo a ricoprire, qualsiasi circostanza a vivere. Possiamo prenderla anche se la nostra esistenza ha già una forma ormai definita. Non è tardi. La decisione se essere fonte di vita per coloro che ci sono affidati spetta solo a noi, e possiamo scegliere di farlo, sempre, in qualsiasi giorno ci sia dato di vivere.

Fonte: CostanzaMirianoBlog.com

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