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La pazzia delle folle, delle elite e del senso della vita

“Nel periodo in cui viviamo la folla ha completamente perso la bussola. In pubblico e in privato, online e offline, la gente si comporta in maniera sempre più irrazionale, nevrotica, animata da uno spirito di gregge e, a dirla tutta, in modi sgradevoli. Se ne vedono le conseguenze nel susseguirsi delle notizie nell’arco di una giornata. Se però vediamo ovunque i sintomi, le cause rimangono oscure”.

Iniziava così nel 2019 un libro che fu definito dal Times il “libro dell’anno”. Fu tradotto da Neri Pozza nel 2020 con il titolo: La pazzia delle folle. Gender, razza e identità. L’autore, Douglas Murray, noto intellettuale conservatore britannico (è stato consigliere del premier David Cameron), secondo Bernard-Henri Lévy è “uno dei più importanti intellettuali del nostro tempo”.

Quell’incipit appare oggi ancor più attuale. Negli ultimi cinque anni – con il ciclone del Covid e le tragedie delle nuove guerre (ma non solo) – si è aggravato il quadro di Murray.

E potremmo aggiungere alla “pazzia delle folle” anche quelle delle élite, che hanno “perso la bussola” forse più delle folle. Una delle caratteristiche più gravi del momento presente è infatti l’inadeguatezza, a livello internazionale, delle classi dirigenti, le cui scelte, spesso disastrose, e la cui mancanza di strategie sensate, ci stanno portando verso una situazione molto allarmante.

L’iniziale citazione di Murray si chiudeva con la domanda sul perché di questa “follia”. L’autore, nel libro, mette subito – giustamente – in guarda dalle spiegazioni semplicistiche (“certe elezioni presidenziali o un determinato referendum. Nessuna di tali spiegazioni va alla radice di quanto sta succedendo”).

Bisogna guardare più in profondità. Secondo Murray “da più di un quarto di secolo viviamo in un’epoca in cui sono crollate tutte le nostre grandi narrazioni”, da quelle religiose alle “speranze laiche prospettate dalle varie ideologie politiche”.

Ma “la natura aborre il vuoto”. Così sono spuntate “di soppiatto idee nuove, nell’intento di fornire proprie spiegazioni e propri significati”, perché non era possibile che le democrazie occidentali fossero il primo caso “della storia che non abbia assolutamente alcuna spiegazione da offrire riguardo a quel che stiamo a fare qui, e nessun racconto che offra un perché alla vita”.

Perciò “la risposta che si è presentata in anni recenti è stata: impegnarsi in nuove battaglie, in campagne sempre più accanite e in rivendicazioni sempre più di nicchia. Trovare un significato muovendo una guerra costante contro chiunque dia l’impressione di trovarsi dalla parte sbagliata di una domanda che magari è stata appena riformulata, e di cui poco prima si è alterata la risposta”.

Ecco il clima nevrotico da guerra civile permanente. Il libro è aperto da un’illuminante frase di Chesterton: “Il tratto specifico del mondo moderno non è il fatto che sia scettico, ma che sia dogmatico senza saperlo”.

A determinare “l’incredibile velocità” di questo processo è stato anzitutto l’irrompere dei social.

I social (e poi a cascata i media) impongono una forte polarizzazione (di qua o di là), senza analisi complesse, un pensiero manicheo e la percezione dell’altro come nemico metafisico.

La conseguenza desiderata e prodotta da questo meccanismo è uno pseudo-rassicurante senso di appartenenza a un gruppo con cui si condivide “il nemico”. Questo dà la sensazione di spazzare via la solitudine e l’illusone di rispondere alla domanda: “chi sono io e che senso ha la mia vita?”.

Fonte: AntonioSocci.com

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