Il pittore è protagonista di una esposizione itinerante che ne racconta lo sguardo “politico” capace di interpretare un’epoca di guerre e turbamenti. Come la nostra
L’ordine mondiale non offre più le certezze del passato recente. La torta di Yalta, spartita tra le potenze golose, è ormai divorata e il multilateralismo appare afono. I conflitti che tempestano il mappamondo spezzano non solamente vite, destini e speranze, ma anche il logos, la lingua per parlarne: si sono perse la parole per dire il mondo, e si sono infrante le immagini per pensarlo. Ci eravamo illusi che il secondo Novecento fosse il tempo della pace, e invece è stato il tempo della tregua. I bordi dei tasselli del puzzle non coincidono più. Il risiko è una metafora vecchia, lo «scacchiere» ha i quadrati irregolari.
Ed è per questo che la mostra di Chagall politico. Il grido della libertà ci appare oggi necessaria. Ci apre gli occhi. Ha appena chiuso i suoi battenti a La Piscine di Roubaix, dove l’abbiamo vista , per riaprirli a fine mese alla Fundación Mapfre di Madrid, e poi a maggio al Musée national Marc Chagall di Nizza. Non è possibile perderla perché oggi abbiamo bisogno di parole e immagini per riprendere il discorso dove l’avevamo lasciato — la fine della Seconda guerra mondiale — e trovare nuove possibilità di discorso. Sta, infatti, tornando il Novecento con le sue tragedie.
La vita di Chagall (1887-1985) è attraversata da due guerre mondiali e dall’esperienza dell’esilio: è piegata come un arbusto dai tormenti del secolo, dalla sua infanzia in Russia alla Francia, dai suoi soggiorni in Germania a quelli in Palestina e in Polonia, dalla permanenza negli Stati Uniti al Messico, prima di raggiungere il Mediterraneo della Costa azzurra. La sua arte, impregnata di un umanesimo nutrito dalle sue radici ebraiche e bibliche, si fa messaggera di un impegno genuinamente “politico”. E la mostra certifica che per lui il nesso tra la poesia e la politica è la Bibbia. Disegni e dipinti rivelano le tensioni del conflitto e la sua fede incrollabile nella pace, in un dialogo continuo con la storia del suo tempo. La mostra ha il merito di mettere in luce il significato politico della sua opera rimasto a lungo in secondo piano, a causa di una produzione che a volte tende ad essere ridotta a un mondo di sogni.
La mostra Chagall politico decostruisce decisamente quest’immagine, e ci mostra un artista che da rivoluzionario matura in profeta. All’inizio del percorso si è accolti e sopraffatti da La Commedia dell’arte (1958), opera monumentale (2.55 × 4 m) commissionata per il foyer del Teatro di Francoforte. La pista da circo diventa specchio della società e allegoria politica: acrobati, trapezisti e musicisti suonano e giocano di concerto in nome di un’Europa in ricostruzione. Marc Chagall agisce politicamente perché, con l’accettazione di questa commissione, l’artista compie un gesto forte nei confronti della riconciliazione con la Germania. Al centro, una figura zoomorfa violoncellista si affaccia su un gallo rosso con l’occhio spalancato, l’unico a guardare lo spettatore: simboleggia lucidità e chiaroveggenza.
Questo mondo apparentemente incantato nasconde un universo metaforico e simbolico dalla dimensione tragica, dove la risata si mescola alle lacrime. Le curatrici della mostra, Ambre Gauthier e Meret Meyer (nipote di Chagall), aprono con quest’opera un viaggio straordinario che comprende 150 dipinti, schizzi preparatori e disegni dai primi del Novecento agli anni Settanta, oltre a 43 documenti scritti per la maggior parte inediti. Percorrendo le sale riconosciamo presente — e già dal 1908–, il tema della crocifissione, che riemerge poco prima della Seconda guerra mondiale. Ammiriamo, ad esempio, il trittico Résistance-Résurrection-Libération(1937-1952): inizialmente dedicato al ventesimo anniversario della Rivoluzione russa.
Qui un Cristo ebreo, circondato dalle vittime dei pogrom e della Shoah, prende il posto di Lenin che era la figura centrale del bozzetto preparatorio. E poi la straordinaria Devant le tableau(1968-1971) che rappresenta, sullo sfondo di una luce giallo- arancio, la figura nera della crocifissione di una eccezionale drammaticità moderna. Nel percorso sostiamo davanti a immagini femminili che mostrano la tragedia. Come in La guerre (1943), dove una donna dai capelli rossi, in equilibrio precario su una slitta, stringe il suo bambino, mentre è terrorizzata delle scene di caos che si svolgono davanti ai suoi occhi: un uomo morto con le braccia incrociate giace nella neve, un cavallo imbizzarrito si impenna, e un uomo fugge con un fagotto sporco di sangue. Sempre una donna terrorizzata che stringe il suo bambino è protagonista de Incendie dans la neige (1942) che fa vedere come un ossimoro il fuoco che si sprigiona dalla neve.
Altra potente immagine è quella dell’angelo, come in L’Ange à la palette (1927-1936) che ne mostra uno monumentale dalla carnagione pallida e le ali insanguinate, e La chute de l’ange (1947), dove un cherubino non vola ma ruzzola e precipita nella notte oscura. E che dire de L’Homme à la Torah dans la neige (1930), che rappresenta un uomo preoccupato mentre stringe il rotolo dei testi sacri come a proteggere con tutte le sue forze il bene più prezioso. Quale immagine più potente dell’instabilità e della speranza allacciate tra loro? Colori, immagini, metafore offrono un lessico e una sintassi che la geopolitica, la diplomazia o la scienza politica in generale non riescono a darci. Il sapere tecnico ci lascia assetati, esausti. Le statistiche ci deprivano dei presentimenti. Il «nuovo» mondo che abitiamo non ci permette più neanche di capire se siamo in pace — almeno una pace fredda — o in qualche forma di guerra, ad esempio. L’endiadi «guerra e pace» oggi sarebbe assediata dai distinguo, incapace di ispirare Tolstoj, ma neanche Sun Tzu.
Per orientarci e ritrovare un logos politico, una ragione, un linguaggio adeguato, abbiamo bisogno della genialità di parole nuove, immagini potenti, scrittori, poeti, artisti. Chagall esibito in questa mostra sveglia l’immaginazione: la sua vocazione schiettamente profetica ci balza addosso. I profeti biblici nelle opere esposte sono onnipresenti, così come ci viene ricordato che Chagall considerava suo “fratello” Franz Kafka, «successore diretto di Geremia ed Ezechiele», nel dipingere la metamorfosi del mondo. Noi ragioniamo seguendo le mappe concettuali che abbiamo imparato dalle analisi degli esperti d’oggi, ma esse non reggono davanti a strategie delle quali non si comprendono davvero né il senso né gli obiettivi finali. Abbiamo bisogno dei profeti.
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