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«Il vero inferno non è il fuoco ma il freddo che spegne la vita e impedisce la speranza»

Intervista a don Luigi Epicoco sul suo ultimo saggio, “Per custodire il fuoco – Vademecum dopo l’apocalisse” (Einaudi), nel quale, in un percorso avvincente tra le pagine del Vangelo e quelle di Cormac McCarthy, si interroga su quale speranza è possibile oggi

È ancora possibile sperare? Che cosa? In chi sperare? Sperare sarebbe un atto di coraggio o, come sosteneva Freud a proposito del cristianesimo, un ripiego pusillanime per addomesticare la paura della morte e di un’umanità a brandelli come quella che stiamo attraversando segnata, come avvertono i sociologi, dalla parola “fine”? Fine della civiltà occidentale, fine della modernità, fine della cristianità, fine dell’umanesimo divorato dalle tecno scienze…

Sono le domande che si è posto don Luigi Maria Epicoco, sacerdote e teologo, nonché collaboratore di Famiglia Cristiana dove tiene una rubrica seguitissima in cui commenta il Vangelo del giorno, nel suo ultimo, brillante saggio Per custodire il fuoco. Vademecum dopo l’apocalisse (pp. 112, € 12) edito da Einaudi nella collana Vele. Tra le pagine del Vangelo e quelle di Cormac McCarthy, l’autore va alla ricerca di quel fuoco in grado di riscaldare la vita dal momento che, avverte, «nella religione dell’individualismo si muore di freddo per solitudine».

Che libro è Per custodire il fuoco? Una riflessione sulla tragicità del presente o un invito alla speranza?

«Forse tenendo insieme le due immagini della domanda risponderei nel dire che è una riflessione sulla speranza a partire però dalla tragicità del presente. Da più parti facciamo esperienza di come molte cose stanno minando la serenità della vita umana. La pandemia del Covid è stato il fondale drammatico in cui abbiamo vissuto in questi ultimi anni. Ma ora gli scenari di guerra che minacciano il mondo, le ingiustizie sociali, le povertà che affliggono grandi aree del pianeta ci fanno domandare se siamo in un tempo che possiamo ancora definire di “progresso” o invece in un tempo che sembra giocare pericolosamente con la fine? Un cristiano abita simili circostanze domandandosi continuamente come si può guardare tutto con gli occhi della speranza. Queste pagine nascono da questo imperativo».

Perché ha scelto il romanzo La strada di Cormac McCarthy come “guida” in questo percorso?

«McCarthy è tra i più grandi scrittori contemporanei. Ho scelto lui per una sorta di feeling che da molti anni sento con la sua scrittura. La letteratura di McCarthy è priva di fronzoli e ha la capacità di scendere nel mistero della vita umana e della realtà con una straordinaria capacità descrittiva e una profondità di pensiero che lascia spesso attoniti. Il romanzo La strada è tra i suoi capolavori più importanti. Tutta la storia è incastonata in un mondo che sembra ormai finito, e la vicenda dei due protagonisti, un padre e un figlio, si svolge nella scena di questo mondo finito alla ricerca di un futuro che sembra improbabile che esista. Ma la loro forza è tutta nella loro relazione, nel loro bene, nell’aiutarsi vicendevolmente a non cedere alla disperazione e a osare la speranza. Ripartire dalle relazioni significative sembra il suggerimento che nel buio McCarthy rilancia attraverso il suo romanzo».

“Tu ti salverai, perché tu porti il fuoco dentro”, dice il padre al figlio nel romanzo di McCarthy. Che cosa significa concretamente questa “profezia” per la vita di ciascuno di noi?

«Il fuoco è il simbolo più bello della vita viva. Ogni vita è tale quando ha in sé una passione, un motivo, una forza che la rende possibile e vivibile. Perdere il fuoco equivale a perdere il senso. Nel saggio che ho scritto sostengo un capovolgimento dell’immaginario: l’inferno non è il luogo del fuoco che brucia, ma è il luogo del freddo, dell’assenza del fuoco, della più radicale solitudine. Viviamo in un mondo che è malato d’individualismo. E con l’individualismo si muore di solitudine. Ognuno è invece depositario di un fuoco e ha il dovere di custodirlo, di tramandarlo, di difenderlo con tutte le proprie forze. Diversamente saremo tutti inghiottiti da un’angoscia, una tristezza, un vuoto che ci divorerà, fino al punto da toglierci persino il desiderio della vita stessa. Gesù quando pensa alla propria missione usa esattamente queste parole: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già accesso”. L’esperienza della fede è l’esperienza di questo fuoco acceso dentro ognuno».

Jack Kerouac in On The Road, il romanzo simbolo della beat generation, domanda: “Ragazzi andate da qualche parte di preciso, o viaggiate senza meta? Non capimmo una domanda eppure era una domanda maledettamente chiara”. È la nostra esperienza di oggi?

«È l’esperienza di sempre. L’uomo può vagare o viaggiare. Viaggiare significa avere un motivo e una meta. Vagare è solo un modo per ingannare il tempo e occupare lo spazio intorno a noi. Nella tradizione biblica emerge con chiarezza che tutta la storia della salvezza coincide con un viaggio. La maggior parte delle storie bibliche accadono in movimento. È forse un modo simbolico per descrivere la vita che non è mai stantia ma è sempre un camminare, un pellegrinare, un andare alla ricerca della terra promessa. Anche Gesù nella sua vita ha camminato. Tutti i Vangeli ci raccontano del suo peregrinare avendo come meta ultima Gerusalemme, il luogo dove avrebbe compiuto la sua missione. La vita umana è davvero umana quando è un cammino verso una meta. L’esperienza di fede esplicita in maniera chiara questa meta e non la fa coincidere con un posto ma con Qualcuno. Il cristianesimo ci insegna che la meta, il fine, lo scopo, il compimento di ogni vita è amare. Chi ama è nella direzione giusta del suo viaggio».

Senza Dio, del quale la nostra contemporaneità sembra proprio non sentire la necessità, quale salvezza è possibile? Non bastano forse la tecnoscienza e il consumismo a dare se non un senso almeno un palliativo al dolore dell’esistenza?

«Il problema è esattamente questo: vogliamo palliativi o vogliamo soluzioni? A differenza di quello che pensava Sigmund Freud il cristianesimo non è un modo per addomesticare la nostra paura della morte e le angosce infantili che l’attraversano, ma è un modo per trovare il coraggio di non soccombere a nessuna paura, neppure a quella della morte. Dio non è un modo per evadere dalla realtà, ma un modo per prenderla sul serio. In questo senso McCarthy, consciamente o inconsciamente, ha scritto un romanzo profondamente cristiano. In fondo anche la storia di Gesù è la storia di una tragedia, di un morto ammazzato, eppure dietro quell’apparente dramma vi è nascosta una luce. La resurrezione emerge dopo il venerdì santo, non al posto del venerdì santo. In questo senso spero che la mia riflessione aiuti molti a non avere paura del buio che ci circonda, ma a saperci guardare dentro perché nel fondo di ciò che spaventa non c’è la fine, ma il vero motivo, il fuoco che va ardere la vita. La parola apocalisse non ha il significato di distruzione, ma di rivelazione».

Fonte: Antonio Sanfrancesco | Famigliacristiana.it

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