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Della cosa più importante non si parla mai: tra Usa e Cina noi dove stiamo?

Sul Sussidiario Giulio Sapelli scrive: «Forse il nuovo secolo inizia in questo 2023, perché quest’anno sono passati vent’anni dal cambio strategico inauguratosi con la guerra dell’Iraq e la divisione europea che ne seguì tra vecchia Europa franco-tedesca – attestata sulla rivendicazione dell’autonomia strategica continentale – e nuova Europa a guida polacca e scandinava. Il Putin di allora era l’architrave, con il rifiuto della guerra nordamericana, di quell’ultimo tentativo franco-tedesco di autonomia. Il Putin di oggi è stato ed è il becchino di quel tentativo, funerale annunciato dall’impossibilità della vecchia Europa di fermarlo grazie sia al “formato Normandia”, sia all’accordo di Minsk dell’ormai lontano 2014».

Come al solito Sapelli richiama l’attenzione su una questione centrale, cioè su quanto la guerra in Ucraina segni l’apertura di una nuova fase della storia mondiale.

Su Dagospia si riprende un articolo di Lucio Caracciolo per La Stampa dove si scrive: «La peculiarità dell’impero a stelle e strisce è (stata) l’attrazione del suo soft power. Musica, cinema, letteratura e arti americane seducevano persino gli avversari. […] Oggi l’America non si piace più. Come può affascinare gli altri? Conclusione: l’egemonia dolce non è più crisma del Numero Uno. Doloroso, ma vero: l’America globale non è possibile. Prepariamoci a convivere con una lunga stagione di caos. E a cambiare il modo in cui stiamo al mondo. L’era della beata irresponsabilità è scaduta».

Mosca sperimenta sulla pelle del suo esercito la vitalità dell’economia degli Stati Uniti, ma forse Caracciolo non sbaglia quando segnala come la naturale egemonia americana sull’Occidente e sul mondo stia per diversi lati declinando.

Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «Secondo il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, il numero dei paesi interessati ad aderire ai Brics e alla Sco – organizzazioni che perseguono l’emancipazione dall’ordine mondiale guidato dagli Usa e dal dominio del dollaro – sarebbe in vistoso aumento e avrebbe raggiunto l’anno scorso quota 22. In un discorso ai capi di dipartimento del suo ministero, Lavrov ha affermato, come riporta la Tass, che il numero di questi paesi “si è accresciuto in modo consistente negli ultimi due anni, incluso il primo anno dell’operazione militare speciale”. Il novero di questi paesi includerebbe, secondo il ministro, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Argentina e un certo numero di paesi africani. Si tratta di nazioni che, ha aggiunto Lavrov, “giocano un ruolo davvero importante nelle loro regioni”».

Se negli stessi Stati Uniti si diffondono scelte orientate verso la “cancel culture”, cioè a fare i conti (spesso in modo decisamente strampalato) con quanto cultura e storia americana siano state condizionate da razzismi e schiavismi, non c’è poi da stupirsi se i fantasmi di imperialismi e colonialismi condizionino la discussione in tante nazioni del Sud America, dell’Africa e della Asia.

Sugli Stati generali Jacopo Tondelli scrive: «Questo non succede e così – al termine di una settimana iniziata con la presidente del Consiglio che al raduno degli alpini, a Udine, ipotizzava la riapertura di un servizio di leva militare – finisce con la stessa presidente che apre all’ipotesi di partecipare all’addestramento dei piloti degli aerei F-16 al fianco dell’alleato americano, che continua a sostenere una guerra difensiva giusta, i cui effetti negativi potrebbero tuttavia dispiegarsi appieno lontano da Washington e nel cuore dell’Europa. È lo stesso alleato americano che chiede – e ottiene – che l’Italia esca dall’accordo commerciale con la Cina denominato “la Via della seta”, e siglato dal primo governo Conte, quello dei gemelli diversi Salvini & Di Maio. Non se ne parlò davvero allora, e non se ne parla davvero neppure oggi. Eppure, per l’Italia di domani e di dopo, sapere in che modo ci si rapporta alle due principali potenze economiche del mondo, cioè gli Usa e la Cina, sarebbe fondamentale».

Un intelligente osservatore delle nostre cose nazionali come Tondelli nota come su molte scelte fondamentali di politica internazionale, la nostra discussione pubblica sia quasi assente, concentrata sulle emergenze e sulle minori esigenze elettoralistiche. Per riflettere su questa grave debolezza della cultura politica nostrana, si deve però ragionare innanzi tutto sulle questioni di fondo non sui puri vizi di opportunismo dei nostri politici. La crisi della nostra democrazia, iniziata con il 1992 e aggravata dal commissariamento napolitaniano della politica nazionale attuato nel 2011, ha prodotto soggetti politici particolarmente deboli: a destra spesso più dei movimenti che dei partiti (Forza Italia è essenzialmente un movimento di opinione, la Lega è nata come “single-issue movement” pro federalismo e poi non ha compiutamente elaborato una cultura politica); a sinistra abbiamo più che altro comitati di gestione del potere residuo di culture politiche “morte”, di élite refrattarie a una reale contendibilità del potere e, insieme, tante “compagnie di ventura” legate assai spesso a interessi stranieri. Senza “veri” partiti è dunque difficile una discussione sulla questione più politica tra quelle politiche, cioè quella internazionale. Chissà se oggi crescerà davvero un “partito” conservatore che aiuterà poi il formarsi di un partito realmente socialdemocratico. Questa è la condizione necessaria perché si torni a parlare seriamente e alla grande anche di politica estera.

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