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ULTIMO BANCO – Voglio nascere

Trimalchione, grottesco protagonista del Satyricon dello scrittore latino Petronio, durante un banchetto si vanta d’aver visto la Sibilla Cumana, la famosa profetessa di Apollo che, avendo domandato al dio il dono dell’immortalità si era però dimenticata quello dell’eterna giovinezza. E così continuava a invecchiare, tanto da essersi ridotta a una larva decrepita, bersaglio dei ragazzi del luogo che, passandole davanti, chiedevano: «Sibilla, che cosa vuoi?», e ai quali rispondeva sconsolata: «Voglio morire». Questa storia mi è tornata in mente perché domani festeggio il compleanno, il giorno in cui ricevere i doni giusti: non tanto l’immortalità ma magari l’eterna giovinezza, che i cavalieri di Artù cercarono nel Graal, gli esploratori spagnoli in una fonte d’acqua ai Caraibi, gli alchimisti nell’elisir di lunga vita, Faust e Dorian Gray nel patto col demonio, e noi nei ritrovati tecnico-medico-estetici, come l’imprenditore americano Bryan Johnson che, a 45 anni (i miei, per l’ultimo giorno), ha deciso di investire due milioni di dollari l’anno per uno staff di 30 persone che deve riportare il suo corpo all’età di 18 anni, sottoponendosi a una routine giornaliera da «paziente». Non mi attira il modello che fa della vita riuscita solo la vita «materialmente» giovane (vivere «da malati» per «morire sani») e quindi vorrei festeggiare questo compleanno con più gioia del precedente, perché 46 anni fa è stato solo l’inizio di una cosa che siamo chiamati a fare sempre di più. Nascere. Perché?

Festeggio sì il mio aver cominciato a venire alla luce, ma ancor più il poter venire sempre più alla luce, perché vivere è impegnarsi a nascere del tutto, e non cercare di non morire, che mi sembra troppo poco, anche perché è ciò che facciamo senza proporcelo, per istinto. Quell’istinto che consente agli animali di nascere una volta per tutte al parto, fornendoli da subito di tutto ciò che devono essere e fare: conservarsi e riprodursi. A noi questa semplicità non è concessa. Infatti, per uno scherzo dell’evoluzione, ci mettiamo un tempo infinito a nascere del tutto, come mi dimostrano i due figli nati di recente a coppie di amici. Dopo mesi ancora non sanno fare nulla da soli, ci «mettono una vita» a nascere, forse proprio perché il nostro compito è «metterci una vita»: tutta la vita. Noi umani, se la prima volta nasciamo a nostra insaputa, poi siamo chiamati a nascere, per scelta, ogni giorno fino all’ultimo, tanto che siamo gli unici capaci di smettere di nascere, togliendoci la vita in vari modi, a dimostrazione che sull’istinto di conservarsi e perpetuarsi in noi prevale altro: la libertà. Il nostro compito non è quindi preservarci dalla morte, quello è il compito che ci dà la natura in quanto specie vivente: il compito umano è invece partorirsi, individuarsi, non essere solo rappresentanti «della specie» ma «speciali». In questo senso la vita è tutta iniziazione alla vita, venire sempre di più alla luce. Ma che cosa deve venire alla luce? Che cosa vorrei quindi festeggiare domani? Non il tempo che passa (che festa sarebbe?), ma quello che non passa. E quale non passa? Noi siamo fatti di tre tempi. C’è il tempo cosmico, quello circolare della natura, delle cose che tornano sempre come le stagioni. Poi c’è il tempo storico, lineare, fatto dagli eventi che si danno una volta sola (la primavera torna ogni anno, ma questa ci sarà solo nel 2023). Alcune culture, soprattutto orientali, cercano nel primo tempo la vera vita, diventare tutt’uno con il cosmo; altre, come la nostra, la cercano nel secondo, la vera vita è nel futuro, nel domani, più vivo e meglio è. Ma questi due tempi non mi bastano perché, in entrambi i casi, io non so che fine faccio: se sarò tutt’uno con il cosmo che ne sarà di me? Se la felicità è nel futuro, chi decide quando arriva? Allora vivo anche e soprattutto un terzo tempo, che chiamo del nascere, e che, mescolato ai primi due, è fatto di eventi che mi piace definire «brevi vite eterne». Da che cosa sono fatte? Innanzitutto dall’esperienza che in questo istante non mi sto dando la vita da solo, ma in qualche modo sono dato a me stesso, mi ricevo in dono. E poi da azioni creative (libere e originali), cioè che posso fare solo io. Questo è il tempo che non passa, Il tempo del nascere, fatto quindi di «essere da» (in questo momento la vita mi è data) e «essere per» (mi è data per crearne altra): sono nel tempo storico ma non aspetto il futuro, sono nel tempo cosmico ma sono irripetibile. Questo essere aperti «da» e «per» è «la fine del mondo» perché ne inaugura uno nuovo nell’istante presente. Come? Ricevendo e creando amore, liberamente. Non parlo dell’amore come qualità morale, ma come capacità di essere generati e generare, ricevere e dare più vita alla vita, essere e far essere qualcosa che altrimenti non ci sarebbe. Per esempio: scrivere questa pagina con amore significa farlo ricevendola dall’ispirazione e dando poi vita alle parole e alle persone che la leggono; fare una lezione con amore significa riceverla dalla storia umana e farla dando poi vita all’argomento e alle persone che ascoltano; fare una cena con amore significa riceverla dal tempo a disposizione e farla dando poi vita agli ingredienti e alle persone a tavola… Fare con amore significa ricevere e dare vita in ciò che si fa: l’istante diventa l’incrocio dell’amore ricevuto e dato. E così, anche se spesso non riesco e mi tradisco, ciò che in me è chiamato a nascere sempre di più viene alla luce, perché l’unica maniera di essere vivi è essere pieni di vita. Questo «terzo» tempo non lo cerco in angoli nascosti, in oggetti, sorgenti, elisir, patti, ma lo ricevo e lo creo, eternità di istanti. È il tempo dell’essere amati e dell’amare, se solo restituissimo a questo verbo la sua vertiginosa energia creativa: il potere di potere tutto. Quindi domani proverò a non festeggiare il «ritorno» di una data, tempo cosmico, né il mio «progresso» in un futuro a scadenza, tempo lineare, ma il tempo della creazione, essere creato e creare. Sarà un martedì «qualunque», quello che torna ogni settimana, e sarà l’unico martedì 2 maggio 2023, ma sarà soprattutto la vita che solo io posso ricevere e fare, piccola, ordinaria, semplice, ma quella che solo io «posso nascere».

Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it

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