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“Facciamo pace?!”, in mostra l’orrore della guerra, vista e raccontata dai bambini

A Roma, nel Palazzo delle Esposizioni, è rappresentato da disegni, lettere e installazioni il grido di pace dei bambini della Scuole della Pace della Comunità di Sant’Egidio di Roma, ma anche di Kyiv, Irpin e Kharkiv in Ucraina, dei campi profughi in Rd Congo e in Grecia e Libano, e dei piccoli arrivati in Italia con i corridoi umanitari. La mostra è aperta fino al 26 marzo, poi si sposterà in altre città italiane

 

“La guerra è come una casa senza pavimento” scrive Claudia, 9 anni, romana. E Zahar, coetanea afghana: “Se tutti sapessero il significato della pace, non vivremmo questa miseria oggi nel campo profughi”. Ali di Homs ha 10 anni: “in Siria studiavo e mi vestivo bene… oggi siamo sfollati di guerra: ci spostiamo da un paese all’altro ma non troviamo la pace”. Dall’Ucraina Dasha, dieci anni, dice a tutti noi: “vorrei mostrarvi la guerra così potete farla smettere”. Qui, nel prestigioso Spazio Fontana del Palazzo delle Esposizioni di Roma, contano le voci e i pensieri dei bambini, che spiegano ai “grandi”, nella mostra “Facciamo pace?!”, l’orrore della guerra e il bisogno della pace. Voci fatte di disegni, installazioni, come le gru di carta a ricordo delle mille gru che la piccola Sadako, 12 enne giapponese di Hiroshima creò prima di morire per le radiazioni. O i palazzi devastati dalle bombe costruiti su un terreno dove ricorre la scritta “pace” in più lingue. Oppure gli zainetti colorati che richiamano quello di un bambino in fuga dai bombardamenti in Ucraina.

Le voci dei bambini delle Scuole della Pace, da Roma a Kharkiv

A scrivere, disegnare e mettere su cartone, stoffa, plastica e polistirolo i loro pensieri sulla guerra e le loro speranze di pace sono stati, in questo anno terribile dall’invasione russa dell’Ucraina e delle altre guerre che stanno insanguinando 56 Paesi del mondo, sono stati i bambini e i ragazzi delle Scuole della Pace della Comunità di Sant’Egidio di Roma, ma anche di Kyiv, Irpin e Kharkiv in Ucraina, dei campi profughi in Rd Congo e in Grecia e Libano, e dei piccoli arrivati in Italia con i corridoi umanitari. Le Scuole della Pace sono centri gratuiti gestiti da giovani volontari della Comunità, che accolgono i più piccoli nei quartieri di periferia delle grandi città ma non solo, per sostenerli nell’itinerario scolastico e per proporre un modello educativo solidale, capace di superare barriere, discriminazioni e rifiutare la violenza.

Nel Palazzo delle Esposizioni fino al 26 marzo, poi in giro per l’Italia

Così nel grande salone al quale si accede dall’ingresso di via Milano 13 ogni giorno, dalle 10 alle 20, fino a domenica 26 marzo compresa, e poi presto in altre città italiane, da Novara a Milano, si possono vedere i disegni di aerei che sganciano bombe sulle case, barche in 3D dall’enorme stiva piena di tante figure di uomini piccolissimi, a ricordo forse di un viaggio in mare come solo i bambini che fuggono dalle guerre conoscono, barchette di carta colorata ciascuna con un messaggio di speranza e di pace. Attraverso il percorso espositivo, i visitatori possono comprendere le difficoltà e le sofferenze vissute nella guerra, ascoltando la voce dei bambini, che ne sono le prime e più innocenti vittime. Emerge così, insieme alla commozione, la consapevolezza che, “i bambini hanno una loro percezione, una loro idea chiara della guerra che stanno vivendo – ha sottolineato il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo all’inaugurazione dei primi di marzo – sanno definirla e danno un loro giudizio che ci sorprende. La sorpresa per questa chiarezza è il frutto di questa mostra”.

Testimonianze anche di piccoli profughi afghani, siriani e congolesi

Nella mostra “Facciamo pace?!” parlano, nell’area “La guerra oggi” i bambini di Kiev, di Irpin, di Kharkiv in Ucraina, che sono riusciti ad incontrarsi nelle Scuole della Pace gestite da volontari della Comunità anche sotto le bombe. Bogdan, 10 anni, esprime la sua tristezza nel vedere “le città svuotate, prima erano allegre e piene di gente…”, mentre David, di Irpin, di cui vediamo anche la foto con il suo disegno, con il candore dei suoi sette anni ricorda che non si può “nemmeno accendere la luce, perché è pericoloso”. Ma parlano anche i minori afghani arrivati con il ponte aereo da Kabul nell’agosto 2021, nella sezione “La guerra alle spalle”, e disegnato donne costrette ad indossare il burqa. Rasha, 9 anni, disegna la madre che cerca di avere notizie dei parenti in carcere, ma è picchiata e mandata via, perché alle donne non è permesso girare da sole.

Gli italiani e la guerra rivissuta nei racconti degli anziani e dei diari

Parlano, in questa sezione, anche i bambini congolesi fuggiti nei campi profughi di Goma nella Repubblica Democratica del Congo, da poco visitata da Papa Francesco. E insieme a loro tanti piccoli africani sfuggiti ai conflitti in Burkina Faso e nel Nord del Mozambico. Parlano anche i bambini siriani, vittime di una guerra che sembra senza fine, che si trovano nei campi profughi in Grecia o in Libano dove attendono di essere accolti in Europa. Ma parlano anche i bambini italiani che vivono in pace: hanno incontrato anziani che hanno conosciuto la guerra da bambini o hanno letto i diari di bambini e ragazzi che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale.

Di Leo: non credevano che le loro voci sarebbero state ascoltate

Ci siamo fatti guidare all’ascolto di queste voci e alla visita della mostra da Giovanni di Leo, volontario delle Scuole della Pace e tra i curatori della mostra, studente di Storia all’Università Sapienza di Roma, che è anche il protagonista del video di questo servizio.

Come è nata l’idea di una mostra come “Facciamo pace?!” e cosa contiene?

Questa mostra è nata con l’idea di fornire una voce a chi ancora non aveva avuto la possibilità di parlare, di dire la sua, perché in questo tempo di guerra, ormai è passato più di un anno, nessuno ha chiesto alle generazioni del futuro, ai bambini, che cosa volessero. E perciò noi, come Comunità di Sant’Egidio e come Scuole della Pace, abbiamo deciso di raccogliere in questa meravigliosa location tutti i loro lavori, i loro pensieri sul tema della guerra, sia del passato sia del presente, ma anche quello che loro vorrebbero per il futuro, cioè un futuro di pace. Lo abbiamo fatto raccogliendo i loro pensieri, dopo avergli spiegato e raccontato ciò che stava avvenendo nel mondo. È un’opera che è iniziata l’anno scorso, al momento dell’invasione da parte della Russia dell’Ucraina, ed è stato elaborata in circa un anno scolastico. I bambini e ragazzi hanno messo su carta, con testi e disegni, e anche in installazioni quelli che erano i loro pensieri. Non soltanto nelle Scuole della Pace di Roma, ma anche in quelle di tutto il mondo. Abbiamo ad esempio disegni e lettere di bambini ucraini, del Congo, dei campi profughi in Grecia. Quindi questa vuole essere la testimonianza delle generazioni future, dei bambini, contro la guerra, per la pace di tutti.

Come volontario della Scuole di Pace di Primavalle hai partecipato anche alla raccolta di questo materiale. Cosa ti ha colpito di più della reazione dei bambini alla vostra proposta e poi nel visitare la mostra?

Ho partecipato attivamente alla raccolta del materiale che è qui esposto e la cosa che mi ha personalmente colpito di più, innanzitutto, è stato quanto sia stato faticoso, nei primi mesi in particolare, realizzare e far mettere su carta, dar forma al pensiero dei bambini, proprio perché sono poco abituati ad essere ascoltati. Molto spesso i bambini ci guardavano e dicevano: “Sì, ma perché chiedete a noi queste cose? Noi siamo bambini, non abbiamo voce in capitolo”. Ma quando si è superato questo scoglio iniziale, è stato bellissimo, per la quantità di materiale che abbiamo raccolto in tutte le Scuole della Pace di Roma e del mondo, ma anche che c’è arrivato dai licei, dalle scuole medie e dalle scuole elementari. E poi mi ha davvero colpito, portando qui in visita sia i bambini della Scuola della Pace di Primavalle sia i bambini delle altre Scuole di Roma, è stata la loro reazione di fronte all’opera completa. Perché naturalmente i bambini avevano visto solo l’opera parziale, il loro disegno, la loro lettera e quando ce l’hanno consegnata erano molto esitanti, anche molto anche spaventati all’idea che quello che loro dicevano non sarebbe contato. Invece quando li abbiamo portati qui alla visita, i loro volti sono completamente cambiati perché hanno visto la realizzazione pratica, e hanno visto, come avevamo detto, che anche loro hanno una voce, hanno diritto a dire la loro. Erano felici e raggianti.

Qual è la storia dei bambini che hanno realizzato questi disegni e queste frasi, che vengono da Siria, dall’Afghanistan? E come sono arrivati in Italia?

Purtroppo, per alcuni di loro, la strada per l’Italia o per l’Europa è ancora lunga. Come si legge anche nella frase di Abbas che è la prima che mi ha particolarmente colpito, un bambino di undici anni proveniente da Kabul, arrivato in Grecia con i ponti aerei in seguito all’invasione dei talebani. Esprime il suo desiderio di libertà, di uscire dal campo. Quando l’ho conosciuto, insieme a Firas, vivevano confinati in un campo profughi, dove non potevano vivere la loro vita, non potevano giocare come bambini, perché erano confinati in questi campi stretti, pieni di persone, pieni di paura, pieni di odio. E per questo si legge nelle parole di Abbas: “Mi piace uscire fuori dal campo”. La prima volta che siamo stati in Grecia abbiamo portato i bambini su un pullman per arrivare a un parco, e fargli vedere un po’ di Grecia. Non erano mai stati su un pullman sicuro e per questo lo hanno immaginato come se fossero delle montagne russe. Passavamo sotto i tunnel che portavano al centro di Atene e i bambini urlavano come sulle montagne russe. Erano felici. Appena uscivamo da un tunnel si mettevano. Silenziosi, in attesa di quello successivo. Così abbiamo restituito loro un po’ di normalità, il divertimento, i giochi. Firas invece è un bambino iracheno, di Mosul, scappato dall’Isis, che ha vissuto in prima persona la rotta della Turchia, e l’arrivo in Grecia, per salvarsi. La prima volta che lo abbiamo conosciuto era molto arrabbiato, non dava confidenza, aveva proprio paura di tutto.

Ma dopo la prima estate, quando siamo tornati l’inverno scorso per fare una festa di Natale con loro, ci ha riconosciuto e ci è corso incontro abbracciandoci. E poi quest’inverno, quando siamo ritornati per festeggiare un altro Natale con loro, ci ha raccontato quella che era in parte la sua storia. Che stavano su una barca, c’erano le onde alte, ha visto due persone sparire nel mare. Questo è un racconto che molto spesso viene ignorato, perché quando si parla di naufragi, di bambini e adulti che scappano da luoghi di guerra, si parla spesso di numeri. Invece sentir raccontare da un bambino di otto anni, che tu hai visto crescere, ciò che gli è successo, mi ha profondamente colpito. E per questo abbiamo deciso di raccogliere questi disegni e testimonianze in quest’area, che abbiamo chiamato “La guerra alle spalle”, che racconta come, nonostante siano riusciti effettivamente a scappare dal teatro di guerra, questi bambini vivano e abbiano vissuto la guerra scappando e vivendola ancora nel loro presente.

Come siete riusciti a raccogliere le testimonianze scritte e anche i disegni dei bambini ucraini?

Raccogliere queste testimonianze è stata la parte più complicata di questa mostra, perché naturalmente i collegamenti con l’Ucraina sono abbastanza difficoltosi. Però ci siamo riusciti grazie alle Scuole della Pace che tuttora, nonostante la guerra, sono attive anche in luoghi molto pericolosi come la stessa Kyiv. Questi racconti, questi disegni, queste letterine raccontano proprio quanto sia drammatico il presente per loro. Nelle parole di Sonia: “La guerra per me è paura, per la mia mamma la guerra è paura. Ogni volta che ci sono le bombe, scappiamo dalla città, mia mamma aveva paura, piangeva, non voleva farsi vedere. Mia mamma aveva paura per i bambini”. Questo per un bambino è come la fine del mondo, rappresenta i genitori che non sono più questi grandi giganti imperturbabili, ma sono spaventati, non sanno come rispondere a questa paura. Quindi dare forma a questa paura, come si vede anche nelle foto, è stato bello e complicato, ma ci abbiamo tenuto particolarmente perché rappresenta ciò contro cui ci stiamo impegnando, contro la paura che i bambini hanno, contrastando l’idea che i bambini non possano più vivere un presente normale, ma che invece possono tornare ad avere un futuro di pace. Ognuno di questi disegni è stato raccolto con estrema difficoltà, interrotto a causa delle bombe, ripreso magari in un momento più sicuro, ma è stato continuato senza luce nei rifugi antiaerei e ognuno per questo è una testimonianza.

E qual è l’immagine che hanno i bambini italiani che la guerra non hanno vissuto, e non stanno vivendo, ma la scoprono solo dal racconto di chi l’ha vissuta, degli anziani o dalla lettura dei diari di chi era bambino durante la Seconda Guerra Mondiale?

Anche qui è stato difficile raccogliere le testimonianze dei bambini, che appunto la guerra loro non l’hanno vissuta in prima persona. Perciò abbiamo letto loro quelli che sono i diari di bambini che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale sia qui in Italia sia in Europa, quindi in luoghi che loro possono riconoscere. Ma soprattutto parlando con le persone più anziane, con i loro nonni ma anche con anziani che hanno conosciuto visitando delle case di cura e rsa. E questi anziani hanno aperto loro il mondo di quella che fu la guerra in Europa, hanno raccontato quello che è stato il loro orrore. E l’orrore che questi anziani hanno vissuto da bambini, loro lo hanno reso su carta. In questo pannello sono raccolti i disegni dei bambini più piccoli che noi abbiamo la fortuna di aiutare. Sono bambini di due anni, che magari ancora non parlano, ma hanno sentito queste parole e hanno tratto un senso di sgomento. Come si vede il colore che domina il nero, il colore della paura. Nonostante loro non abbiano effettivamente vissuto nulla di questi eventi traumatici, hanno voluto rappresentare l’orrore che questi bambini del passato gli hanno raccontato. Abbiamo deciso di creare questo ponte con il passato, leggendo i diari di bambini italiani che raccontano l’occupazione tedesca in Italia dopo l’8 settembre, ma anche quello di Anna Frank e altri, che raccontano quanto era terribile la situazione in Europa, soltanto 80 anni fa. È stato il ponte che ha permesso ai nostri bambini e ai bambini di capire cosa stanno vivendo ora, in questo momento, i bambini ucraini, i bambini di tutto il mondo che hanno la sfortuna di vivere in guerra. Per questo la mostra comincia da qui, perché senza l’aver compreso quanto sia stata terribile la guerra in Europa, tutto il lavoro seguente non sarebbe stato possibile.

La guerra in Ucraina continua e soprattutto all’inizio, I bambini delle Scuole della Pace hanno chiesto aiuto, hanno chiesto ai responsabili del mondo di farla finire, quindi anche all’Onu, alle Nazioni Unite, organismo creato proprio perché non ci fossero altre guerre. Cosa chiedono i bambini ai “responsabili del mondo”?

Questo è stato il primo nucleo di questa mostra: un libro che si è formato nelle settimane successive allo scoppio della guerra e raccoglie lettere e disegni provenienti da bambini di tutto il mondo. Bambini delle scuole della Pace di Roma, ma ad esempio di Buenos Aires, dell’Ucraina stessa, dell’Africa. Quindi sono proprio le letterine di tutti i bambini del mondo che abbiamo inoltrato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite tramite l’ambasciatore italiano. Questo lavoro rappresenta il pensiero dei bambini a poche settimane dallo scoppio della guerra, quando il terrore era fresco, purtroppo dopo un anno si è visto che questo lavoro e questo tentativo di ricostruire la pace ancora non ha dato frutto e perciò abbiamo deciso di continuare questo messaggio, contribuendo a rendere ancor più viva questa mostra. Che tra poco si concluderà a Roma, ma che proseguirà in giro per l’Italia, ad esempio a Novara e a Milano, con l’aggiunta di nuove opere che sono state realizzate nel corso di questi ultimi mesi. Purtroppo non possiamo scrivere una nuova lettera ai responsabili dell’Onu perché non ha ancora funzionato la prima. Ma abbiamo deciso di far realizzare ai bambini quella che secondo loro potrebbe essere una ricetta per la pace, ciò che serve per realizzare un futuro di pace per tutti. E per questo ogni bambino, ogni persona che è venuta a visitare questa mostra, ha scritto la sua lettera, ha fatto il suo disegno, ha cancellato una parola di guerra dal Dizionario della pace.  Perciò questa è una mostra viva che è stata inaugurata qui a Roma, ma che continuerà a provare a portare il suo messaggio di pace in giro per l’Italia e poi per il mondo.

Adesso state raccogliendo soprattutto “ricette di pace” dei bambini e dei ragazzi. Qual è la loro speranza nel futuro e come vedono la possibilità di uscire da questa guerra, ma anche dalle altre? Cosa chiedono?

I bambini chiedono pace e basta. Non chiedono una pace né vittoriosa né da sconfitta. Chiedono pace, chiedono prosperità, chiedono tranquillità per tutti. Non cercano un qualcuno che prevarichi sull’altro o qualcuno che vinca. Vorrebbero la pace. Vorrebbero che così come loro adesso hanno la possibilità di vivere in pace la loro vita, la loro vita da bambini, la loro spensieratezza, così possano fare anche tutti i bambini di cui abbiamo raccontato loro che adesso non possono farlo perché sono bloccati, magari sotto le bombe, magari in un paese straniero. Quindi i bambini cercano, chiedono e gridano pace.

Come è nata questa installazione degli zainetti e in generale l’ispirazione per concretizzare con degli oggetti in 3D il loro pensiero? È venuta dai ragazzi, dai bambini?

Questa istallazione è nata da questa foto, da questa opera d’arte, che rappresenta un bambino con uno zainetto fosforescente, molto appariscente, che guarda questo mare di persone spaventate sotto un ponte distrutto (Quello di Irpin, all’inizio della guerra, n.d.r.). Quest’opera vuole rispondere a una domanda che ogni bambino, ogni persona si è fatta: “Ma se scoppiasse la guerra qui, ora dove sono in questo momento, Io cosa porterei con me? Cosa metterei nel mio zainetto? La decisione di dare forma alla risposta tramite delle scritte sugli zainetti è venuta proprio dai bambini ed è stata appunto la rappresentazione fisica del loro terrore. Perché quando la guerra colpisce, tu non hai tempo per pensare, devi soltanto reagire. E ognuno di loro ha provato a riflettere su che cosa avrebbe portato con sé. E molto spesso non sono oggetti, sono sensazioni, sono la rappresentazione di ciò che loro pensano. C’è paura, “come ho fatto a finire in questo posto?”, c’è dubbio, c’è rabbia perché la guerra è insensata, non si capisce perché sia scoppiata, non si capisce perché ci sia qualcuno che vuole farmi del male. Perciò, unendosi con questo bambino che guarda l’Ucraina distrutta, ogni bambino delle Scuole della pace ha realizzato il suo zainetto e ogni bambino che è venutu qui a visitare la mostra ha preso uno zainetto e ci ha scritto sopra. “Io mi porterei tristezza, io mi porterei dubbi, io mi porterei paura e mi porterei rabbia”. Quindi, come le altre istallazioni di questa mostra, questa è un’opera viva, che continua a rappresentare le paure e i dubbi di ogni bambino, di ogni persona di fronte al dramma e all’insensatezza della guerra.:

Fonte: Alessandro Di Bussolo | VaticanNews.va

 

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