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Dall’alzabandiera a scuola al ristorante (chi può): la Russia che non t’aspetti

Di ritorno da San Pietroburgo, appunti di viaggio dello scrittore e saggista Luca Crippa. Chi combatte o chi lavora per la guerra è un po’ come parte di un esercito di animali notturni che ha invaso la città, ma di cui nessuno ha notizie certe. E il tempo scorre via esattamente come sempre (problemi compresi)

Sono innamorato della Russia. Per i soliti motivi, direi: la sua straordinaria letteratura; le tradizioni popolari che filtrano (e si “nobilitano”) nelle versioni di Tolstoj preparate per i bambini; il cinema muto con i suoi maestri insuperabili; il cinema eroico, simbolico, mistico e testimoniale dell’epoca sovietica; i musicisti; i ballerini e ballerine; i pittori; i poeti; gli esploratori; i pionieri; i visionari; i costruttori di città; i rivoluzionari all’inseguimento di un’idea di Bene assoluto (e poi disperati e spesso traditi persino da se stessi); i dissidenti; le liturgie ortodosse, le icone, la fede popolare, le antiche chiese in legno, capolavori di bellezza ed elevazione nei villaggi più sperduti; i paesaggi dai confini infiniti di cui hai percezione anche stando nel centro di una città russa moderna e iper-abitata…

Sono innamorato della Russia e così, dopo esserci stato, da turista e da scrittore, altre sei volte, in passato, non sono riuscito a rinunciare a un viaggio in Russia proprio ora che questo magico Paese sembra a noi sul punto di tradire se stesso in una paradossale contrapposizione identitaria contro il mondo intero. Così, tra il 5 il 15 ottobre di questo mese, munito di un semplice “visto turistico”, ho vissuto a San Pietroburgo, in un quartiere della periferia meridionale dove è stato più costoso del solito – ma neppure troppo – affittare un monolocale in un edificio ristrutturato negli anni del recente boom turistico di questa bellissima città, con arrivi da tutto il mondo (altro che “Occidente che vuole distruggerci”…), per ospitare visitatori per brevi periodi di tempo (direi il 20% circa in più, rispetto a due anni fa). In città sono amico da molto tempo di un paio di famiglie, ma questa volta ho rifiutato qualsiasi ospitalità privata, per non mettere nessuno in difficoltà, nelle prossime settimane, per aver ospitato un cittadino di un “Paese ostile”.

Qual è il problema? È presto detto: una settimana prima della mia partenza, la nostra ambasciata a Mosca ha raccomandato agli italiani di lasciare il Paese nel caso non fosse indispensabile trattenervisi. Il motivo non poteva essere dichiarato, ma è legato al rischio che la situazione della guerra in corso precipiti anche a causa di “provocazioni” che potrebbero prodursi o effettivamente (un atto ostile, terroristico, in territorio russo: sull’esempio di un attacco avvenuto anni fa nella metropolitana proprio di San Pietroburgo) o come pretesto creato dagli stessi russi… Insomma: meglio un viaggio solitario di un turista solitario senza “contatti” e conoscenze con persone del posto. Sono entrato nel Paese via terra: volo Milano – Helsinkij e poi in autobus dalla capitale della Finlandia alla ex capitale degli Zar.

Autobus pieno per lo più di signore russe: mamme, spesso con bambini al seguito, che lavorano in Finlandia come cameriere negli alberghi e vivono da “frontaliere” anche in questo periodo. Unici stranieri: io, un signore inglese, una signora russa che però vive in Spagna da molti anni e ha il doppio passaporto, russo ed europeo. Al confine, lunghi controlli a noi tre (che facciamo perdere tempo – circa un’ora e mezza – a tutti gli altri passeggeri, devo dire molto pazienti e gentili), al termine dei quali l’inglese e la russo-europea vengono respinti. Io passo, con qualche perplessità. “Visto turistico?” domanda in inglese la guardia di frontiera scrutandomi perplessa. Confermo: regolarmente rilasciato dal consolato russo di Milano. “Si, ma… turismo proprio in questo brutto periodo?” insiste lui, prima di chiedere l’intervento di una collega e poi di un responsabile di grado più alto. “Dove va? Dove risiederà? È già stato a San Pietroburgo, in passato? Cosa le interessa vedere? Perché viaggia da solo?”. Rispondo a tutto. Mi sono preparato. Mi dilungo sul fatto che amo Dostoevskij e voglio scrivere un libro (è vero) sul fatto che il grande scrittore ha vissuto, secondo me, le ultime ore della sua vita come se fosse il protagonista di un libro scritto da Tolstoj, e viceversa. Mi ascoltano. Sorridono.

Non dico che ho appena scritto, firmato e pubblicato in Italia un libro che sta uscendo contemporaneamente in Francia, Portogallo, Finlandia e parla della guerra in corso vista con gli occhi di una bambina ucraina sfollata con solo parte della sua famiglia (il padre ucciso nelle prime ore del conflitto dalle forze speciali russe già presenti nella capitale per cogliere di sorpresa il governo e rovesciarlo con un colpo di mano). Se lo dicessi, lo potrebbero facilmente verificare su Internet… e addio ingresso. Ma la mia accorata conferenza sull’autore dei Demoni, unita al fatto che ho in valigia solo due libri, tutti e due dello stesso scrittore, ha il suo effetto. Dopo aver acceso e mostrato il contenuto del mio computer portatile, opportunamente pulito a casa da tutti i miei testi potenzialmente “sospetti”, mi lasciano passare. Anche questo è Russia: Paese dove “si può fare una rivoluzione per una poesia” (Achmatova) e dove due anni fa ho visto con i miei occhi una squadra di trenta studenti di diciott’anni tatuati, con i capelli di tutti i colori, muniti di cellulari, vocianti, chiassosi e tra loro maneschi… ammutolire compatti, senza bisogno di alcun richiamo dell’insegnante, davanti a pagine autografe di Dostoevskij esposte nell’ottima casa-museo a lui dedicata in città.

Preso possesso del mio monolocale, al diciassettesimo piano dell’edificio di cui sopra, con vista sulla periferia post-sovietica della metropoli (cinque milioni di abitanti circa, in costante crescita), comincio a fare, nei miei giorni di permanenza, lunghe passeggiate a piedi o percorsi con l’ottima rete di mezzi pubblici, al solito usata dall’80% almeno dei cittadini. Le cose viste e vissute che hanno colpito la mia attenzione e che sono riferibili al momento che stiamo vivendo le espongo di seguito brevemente.

In sintesi: libertà civili e politiche negate a parte, i russi di San Pietroburgo in questo momento vivono meglio di noi. Cosa intendo dire? Che alla normale lotta per migliorare le proprie condizioni di vita ed entrare a far parte della, lentamente, sempre più estesa classe media – che è in Russia l’impegno universale delle proprie energie di tutti gli adulti sani – non si aggiunge il timore per l’aumento incontrollato delle bollette e dell’energia (benzina verde a meno di un euro al litro, per esempio); non si aggiunge alcuna precauzione contro il Covid (abolito per decreto: un’amica dottoressa di un ospedale della città mi ha raccontato che sette-otto mesi fa, un mattino, su giornali e telegiornali il governo ha annunciato che “il Covid non c’è più”, punto. Perciò nessun medico può diagnosticare una malattia che non c’è più: se uno ha sintomi polmonari o di altro genere, riconducibili – con un tampone – al Covid, si dice che ha la bronchite, o la polmonite ecc., e lo si cura di conseguenza, senza “complicazioni epidemiologiche”); non si aggiunge l’affanno per qualsiasi penuria di beni di prima, seconda o terza necessità.

I supermercati sono forniti di tutto (compresa pasta Barilla, De Cecco, Voiello, sughi annessi di diverse marche italiane, formaggi Galbani, Nutella, olio di qualità da Puglia e Toscana – tutto questo non so dire se per la presenza di vecchi, ma estesi, fondi di magazzino o per sanzioni solo parzialmente osservate. Comunque ho anche trovato la Coca Cola, insieme alla sua imitazione, la – scritto in cirillico – “Dableyù cola”, che, una volta assaggiata, mi è sembrata Coca Cola con l’etichetta cambiata ad arte. Ne parlo con competenza perché sono da sempre un ghiotto consumatore di questo prodotto).

Fornite anche le farmacie, i negozi di abbigliamento, i reparti casalinghi, igiene, giardinaggio – amatissimo, dai russi – e sport dei supermercati. Aperti e forniti anche i molti negozi di fiori (almeno in numero tre volte superiore agli stessi negozi – a parità di territorio e popolazione – a Milano: per una donna russa, un fiore è tutto). In crisi, invece, il settore dell’arredamento fai da te: l’assenza dell’Ikea si fa sentire. I russi non temono neppure di frequentare i ristoranti (affollati) e i locali pubblici. Ovviamente sto parlando dei russi che li frequentavano anche prima, cioè i membri della classe media (io dico, a occhio, un 40% circa della popolazione).

 

E veniamo alla “Operazione militare speciale”. Alcuni manifesti per le strade (non molti e tutti visti in periferia, almeno da me; nessuno in metropolitana) invitano all’arruolamento, ma in maniera molto indiretta. Vi compare la foto di un soldato in primo piano che sembra avere almeno 35 anni e ha i tratti e l’espressione di un padre di famiglia rassicurante. Il testo dice: “Gloria agli eroi della Russia! (Firmato) Sergey Reshkov, capitano della guardia”. C’è poi un grande QRcode per avere informazioni. Quindi il manifesto, a colpo d’occhio e a una prima lettura, nemmeno fa cenno alla mobilitazione in corso. Nessuna “Z” vista da me, o altre scritte patriottiche o aggressive, sui muri di periferia (e qui ce n’è, di muri, e anche di scritte) o del centro.

Nessun centro di arruolamento posto nel vasto quartiere dove ho risieduto, che ho perlustrato metro per metro (a occhio, almeno qurantamila abitanti, stipati negli altissimi palazzoni di tipica concezione Krusceviana).

E allora? Allora ecco tre momenti “di guerra” vissuti da me. 1) L’alzabandiera con canto dell’inno nazionale alle 8 di mattina, in punto, in due diverse scuole elementari. Vedere bambini coinvolti e “animati” da simili manifestazioni, a me fa sempre una certa impressione (i genitori, però, fieri); 2) In televisione, denuncia con molta enfasi del gravissimo sopruso perpetrato dal nemico con l’attentato al ponte di Kerch, messo a segno – qui nessun dubbio – dai “fascisti ucraini infiltrati”. Il giorno dopo: ancora più enfasi sui “micidiali bombardamenti mirati del nostro esercito, sicura strategia di una vittoria ormai prossima”. 3) Una sorpresa: un gruppo di reclute che salgono su tre camion dell’esercito, infagottati in divise più larghe del dovuto, in pieno centro. Commenti tra l’imbarazzato e l’impaurito dei russi – moltissimi – presenti intorno a me, uomini, donne e famiglie intere. Perché, mi sono domandato, mettere in mostra i nuovi soldati, far vedere a tutti che ci sono eccome? Dai volti dei presenti e dalle brevi frasi di commento scambiate fra loro intuisco che la risposta è che si tratta del modo più efficace di far vedere che la guerra c’è e che riguarda tutti. Cosa, questa, che nessun russo medio pensa davvero, o comunque alla quale non fa nessuna attenzione. Chi combatte, o chi lavora per la guerra, è un po’ come parte di un esercito di animali notturno che abbia sì invaso la città, ma di cui nessuno abbia molte notizie certe: i combattimenti sono “laggiù”, i soldati, tutti, anche i “nostri”, sono qualcuno che è andato laggiù. Ma qui la vita continua esattamente come sempre.

4) Alle cinque e mezzo di mattina prendo un taxi che mi porti alla stazione degli autobus, dove prenderò il mezzo che mi riporterà a Helsinkij. I viali del centro, come normale, sono quasi deserti. Improvvisamente, a un semaforo rosso, ci attraversa la strada un plotone di reclute di età diversa (da 20 a 60 anni). Tutti corrono con passo diseguale, dietro un sergente urla qualcosa per incitare la squadra. Provo la tentazione di scendere dall’auto e gridare in russo: “Ragazzi! Amici! Fermi! Ma dove andate?”. Ovviamente non lo faccio, ma mi rimane il rimpianto di non aver potuto parlare con uno di loro per capire cosa sa, cosa spera, cosa teme di questo conflitto assurdo che presto, forse, lo schiaccerà. Intanto, comunque, ho avuto un’altra prova di questa presenza sotterranea, nascosta, delle forze in partenza: come un esercito di topi che nessuno vuole ammettere di ospitare nei sotterranei del palazzo.

E la Chiesa? Da anni ho, in città, una mia parrocchia, in un quartiere popolare a Nord della città, dove ho seguito, due anni fa, prima le celebrazioni del Natale e poi quelle del Triduo e della Pasqua. Il pope, con il quale ho chiacchierato più volte in passato (il gentile amico cattolico che prega, ascolta, accende candele davanti alle icone e non disturba nessuno), mi riconosce e parliamo. Si stupisce che sia qui, ma appare contento per il gesto di normalità che ho voluto compiere. Confessa un certo imbarazzo, nei rapporti con la sua gerarchia.

Giungono direttive di sostenere l’animo patriottico dei fedeli nelle tipiche prediche a fine liturgia (mai durante la liturgia, le parole del sacerdote sempre alla fine, quando ciò che conta davvero è già terminato), ma lui afferma di non riuscire a trovare i toni dell’orgoglio patriottico e quindi di limitarsi a invitare i fedeli a pregare per “le vittime”, con la sua riserva mentale, dice, di pensare a tutte le vittime, anche agli ucraini. Ha decine di famiglie di cui sa che hanno parenti in Ucraina.

Celebra ogni giorno, alle cinque del pomeriggio, uno dei riti feriali che più mi affascina: per almeno trenta minuti, su una solenne cantilena che crea un effetto vagamente psicotropo, accompagnata dal coro dei presenti che ripetono cantando ossessivamente “Signore pietà”, il celebrante legge uno dopo l’altro una serie di foglietti vergati a mano dai fedeli nel corso di tutta la giornata. Su alcuni, come sempre, c’è scritto “Ivan spera di trovare lavoro”, “Masha vuole uscire dall’ospedale”, “Elena vuole concentrarsi di più nello studio”. Su alcuni, oggi, c’è “Igor spera di non partire soldato”, oppure “Misha è al fronte e ha paura”. Preghiere scritte da donne, come sempre, in nome del popolo nascosto dei combattenti. Quasi tutti poverissimi di questi quartieri. Sono tornato. Sono in Italia. Prima abbatteremo, noi e loro, questo muro assurdo, durissimo proprio perché fatto di niente, e meglio sarà. Per tutti.

Fonte: Luca Crippa | FamigliaCristiana.it

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