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ULTIMO BANCO – 123. Il futuro sta fermo

«Non me l’aspettavo proprio, mi ha aperto gli occhi». Così ha commentato una studentessa alla fine di un lavoro a cui dedico gli ultimi giorni di lezione dell’anno. Odio l’ingorgo di verifiche e prove nella fase finale e cerco di chiudere tutto a metà maggio, per farli lavorare su ciò che ritengo fondamentale: l’esplorazione del talento. L’istruzione ha come fine la cultura, l’educazione la libertà, la prima dipende dai programmi la seconda dalla vita risvegliata dall’incontro tra i ragazzi e quei programmi, cioè le vette dello spirito umano, da Dante a Einstein.

Così di anno in anno cerco di incoraggiare questo «risveglio» e ho la fortuna di lavorare in una scuola in cui posso seguire gli studenti nel tempo (uno dei punti deboli del nostro sistema scolastico è la discontinuità didattica e quindi educativa), e vedo accadere ciò che il poeta Rainer Maria Rilke scriveva a un ragazzo che gli chiedeva di aiutarlo a capire se avesse vocazione da poeta: «È necessario che nulla ci accada di estraneo, ma solo quanto da lungo tempo ormai ci appartiene. Si imparerà a riconoscere che quello che noi chiamiamo destino esce dagli uomini, non entra in essi da fuori. Solo perché non assorbirono e trasformarono in se stessi i loro destini, tanti non riconobbero che cosa usciva da essi. Come a lungo ci si è ingannati sul movimento del sole, così ci s’inganna ancora sempre sul movimento dell’avvenire. Il futuro sta fermo ma noi ci muoviamo».

Ma verso dove? Il mio compito educativo è portarli nel futuro… cioè dentro se stessi. Il futuro, dice Rilke, sta fermo: siamo noi a darlo alla luce nella misura in cui ne diventiamo consapevoli e lo coltiviamo, perché è già in noi. Lo scrittore portava l’aspirante poeta a rendersi conto che sarebbe diventato tale solo se poeta lo era già, per questo cercava di aiutarlo a capire se la sua aspirazione dipendesse da miraggi della conoscenza di sé e da aspettative alla moda, o se invece sbocciasse da lui e chiedesse solo di esser accolta e curata. Io spero che i miei ragazzi escano dalle superiori avendo «concepito» il futuro, cioè «in gestazione» di quello che è già in loro così da non perder tempo dietro a miraggi o imposizioni. Saranno poi loro a scegliere se «abortire» o «dare alla luce» il futuro: libertà è il coraggio di scegliere se nascere o morire, partorirsi o tradirsi.

Il mio compito non è verificare che sappiano la storia della letteratura, ma che in essa trovino le parole per stare di fronte a se stessi, «dando alla luce» il futuro di cui sono «in attesa». Ma questo accadrà solo se di quel futuro diventano consapevoli e quel futuro diviene «pensiero», come diceva il filosofo cinese Lao Tzu: «Fai attenzione ai tuoi pensieri, perché diventano parole. Fai attenzione alle tue parole, perché diventano le tue azioni. Fai attenzione alle tue azioni, perché diventano abitudini. Fai attenzione alle tue abitudini, perché diventano il tuo carattere. Fai attenzione al tuo carattere, perché diventa il tuo destino».

E così cerchiamo ciò che li fa alzare la mattina, oggi e fra trent’anni, cioè far coincidere quello che ti riesce meglio e ami fare di più con quello che va a beneficio di altri e che, coltivato sin da ora, magari diverrà anche una professione. Ecco come. Ciascuno scrive il proprio nome e cognome in basso su un foglio che poi passa agli altri compagni che devono scrivere in una sola riga in alto, piegando poi il foglio in modo da non leggere le frasi precedenti, ciò che riconosce a quel «nome» come talento: non ciò che sai fare («è un bravo imitatore», «una brava cantante»), ma ciò che sai essere e che ha reso la mia vita bella («sa analizzare un problema», «sa ascoltare»). Insomma provo ad abituarli a scoprire il futuro come modo di essere che è già presente, da custodire e coltivare da subito.

E così alla fine del lavoro avevo in mano, per ogni alunno, un elenco di affermazioni che gli altri gli attribuivano e che ho letto ad alta voce in una specie di trattato sul «perché è bello che tu sia al mondo proprio oggi». Sono rimasti a bocca aperta, perché nessuno, tranne chi ci ama veramente, ci racconta mai la luce che emaniamo in modo così semplice e diretto: una chiara indicazione di futuro, un destino che c’è già e bisogna proteggere e ampliare.

Erano talmente presi dalla lettura e stupiti di quanto bene pensassero di loro i compagni, che hanno preferito saltare l’intervallo pur di ascoltare tutto fino all’ultima riga. Hanno inoltre preteso di fare lo stesso lavoro su di me, aggiungendo un foglio con il mio nome. Quando l’ho letto mi sono reso conto di quanto futuro io abbia, perché è un presente che cresce. Quando futuro e presente coincidono possiamo dirci felici: diventiamo sempre più ciò che siamo (vedo la creatura nuova che tu eri, dice il poeta Salinas dell’amata).

Provo a liberarli così da quella idea di felicità da cui anche io mi sono dovuto spogliare, qualcosa che si raggiunge come frutto di una performance, di un evento o di un prodotto: «quando mi sarò laureato, quando avrò un lavoro, quando mi sposerò… allora sarò felice», cosa che puntualmente non accade, perché la felicità è uno stato dell’essere e non del divenire. Lo indica proprio il termine felice (dal greco generare: phyo da cui physis, natura, cioè il processo del dar vita, o anche phylla, foglie), che i latini utilizzavano per indicare né più né meno l’albero che dà frutto (arbor felix), a differenza di happy, happiness, la cui radice hap indicava la fortuna, quel che accade (happen) fuori di noi: nella nostra cultura prevaleva l’idea di felicità come qualità dell’essere che diventa un’opera bella da fare, e non quella degli happening, eventi esterni e fortuiti da moltiplicare.

Posso essere felice, adesso, solo se mi prendo cura di quel futuro che è già in me, e che magari trascuro per ignoranza, pigrizia, tradimento, mancanza di fiducia, distrazione, assenza di guide o amici… Sentirsi dire da altre 20 persone le due o tre aree in cui si è già un dono per il mondo rende il futuro già presente. E così li ho visti uscire dalla classe pieni di energia, la stessa che ho sentito in me, perché mi sono reso conto, grazie al loro gesto, che dopo 22 anni di insegnamento non smetto di essere felice (dar frutto) in un lavoro che invece, a livello sociale, politico ed economico, è diventato terra arida. Ma se posso non scoraggiarmi e non tradire me stesso è perché mi aggrappo a quel futuro fatto di nomi, il mio per primo, che ogni giorno chiamo all’appello mattutino.

E mi/li chiamo non, come burocrazia vuole, perché «l’assente» giustifichi nei giorni successivi la sua assenza, ma perché «il presente» giustifichi, oggi, il suo esser «presente»: «Sono presente perché non c’è mai stato nessuno sulla faccia della terra né mai ci sarà, che oggi potrà essere e fare ciò che solo io posso essere e fare». E ho visto gioire anche quei ragazzi che, meno sicuri di sé o meno adatti alle performance scolastiche, si scoprono apprezzati per quello che sono e non per ciò che riescono a fare. Chi sente la sua vita bene-detta (detta bene) dagli altri trova il coraggio di essere fedele a se stesso e scopre che il futuro, e quindi la felicità, li ha già dentro, se solo comincia a coltivarli giorno per giorno. Questa esperienza è piaciuta molto a persone a me care, tanto che l’abbiamo ripetuta dopo una cena e ho visto che noi adulti ne abbiamo bisogno tanto quanto, se non di più, dei ragazzi, perché la fatica del vivere e le sconfitte portano spesso a tradirsi. E io mi auguro che i miei studenti finiscano l’anno attenti non solo alla media dei voti in vista dei crediti (termine economico che dice l’inadeguatezza di un sistema educativo che quantifica il risultato in termini di debito o credito), ma con quella inquantificabile ispirazione, seminata nella mente e nel cuore, che vuole diventare opera: la grande opera della vita felice, cioè che dà frutto e che bisogna cominciare oggi, proprio perché è lunedì… magari ascoltando, in famiglia o in classe, l’elenco dei motivi per cui «è una fortuna che tu sia nato».

Fonte: Corriere.it

 

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