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Prima la pandemia, ora la guerra. Gli effetti dell’ansia dell’insicurezza

I iconsigli scientifici per affrontare l’ansia e l’insicurezza accentuate dall’emergenza Covid e dal conflitto russo-ucraino

A Interris.it i consigli dello psicologo per affrontare questa fase di difficoltà individuale e collettiva. Prima la pandemia e ora la guerra contribuiscono ad acuire il senso sociale di isolamento e di insicurezza. Abbiamo chiesto allo psicologo Lorenzo Mazzarini quali siano le conseguenze sulla vita individuale. Soprattutto per le persone più fragili.

I consigli dello psicologo

“L’emergenza pandemica ed ora la guerra in Ucraina hanno messo a dura prova il senso di sicurezza di tutti noi. Pervasi dal timore di contrarre il virus. O da quello di essere coinvolti in un conflitto con le nefaste conseguenze- sottolinea lo psicologo Lorenzo Mazzarini-. La costante preoccupazione di ammalarsi. L’indeterminatezza delle conseguenze legate alla malattia. Le incertezze derivate dalla novità dell’infezione. E quindi la scarsa conoscenza di come affrontarla. Le frequenti informazioni sulla saturazione del sistema sanitario. Sono tutti elementi che hanno contribuito all’attivazione di importanti sistemi di allarme nel nostro cervello. Questa attivazione avviene anche negli eventi traumatici o nei cosiddetti sviluppi traumatici”. Prosegue lo psicologo: “Non a caso alcuni scienziati iniziano a parlare della vicenda coronavirus come ‘trauma collettivo. Particolarmente utili al riguardo le ricerche condotte da uno dei più importanti neurofisiologi viventi, Stephen Porges dell’Indiana University”

Cosa ci accade durante una situazione di protratta incertezza?
“Durante la pandemia, secondo molti studi scientifici, il nostro cervello avrebbe azionato un sistema di allarme. Che si attiverebbe automaticamente in situazioni di pericolo. Capace di spegnersi o attenuare il segnale solo quando ci sentiamo in una situazione di sicurezza. Il meccanismo fisiologico è funzionale a preservarci da pericoli quotidiani. Anche nelle relazioni. Ma se l’attivazione è particolarmente intensa e soprattutto continua nel tempo ecco allora la situazione  cambia”.

In che modo?
“Potrebbero comparire conseguenza psicologiche disfunzionali al nostro vivere quotidiano. O vere e proprie psicopatologie. Uno dei fattori che può incrementare il senso di sicurezza è proprio la presenza ed il supporto degli altri. Ma l’isolamento lo ha reso più difficoltoso. Altro fattore fondamentale è la resilienza. E le caratteristiche personali come la capacità di far fronte a tali situazioni. Qui le persone più fragili (come disabili, anziani, giovanissimi ed adolescenti) sono stati messi alla prova ancora più duramente. Probabilmente queste categorie maggiormente vulnerabili hanno avuto una più marcata percezione del pericolo. In maniera e per ragioni diverse. In alcuni le conseguenze possono sfociare in condizioni di disagio. Come disturbi d’ansia, problemi relazionali, disturbi dell’umore. Fino agli stati depressivi. Accompagnati anche da rabbia e disforia. Non a caso l’ansia si caratterizza per la presenza di un senso del pericolo/allarme ‘immotivato’. E lo stato depressivo. Con una sorta di rassegnazione all’impotenza e negatività pervasiva”.

Quanto contano la socializzazione e la relazioni nel rallentare il decorso di patologie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer?
“L’autorevole rivista scientifica ‘The Lancet’ ha pubblicato i risultati di una serie di ricerche che osservano gli esiti dell’isolamento sugli anziani. Sa dal punto di vista medico sia da quello psicologico. Le conclusioni conducono ad un aumento del rischio di comparsa di psicopatologie. Come la depressione o di disturbi neurocognitivi. Da tempo si è sviluppata una branca di studi di neurobiologia relazionale. Che focalizza l’attenzione nella relazione tra rapporti interpersonali e modi in cui il cervello si sviluppa e si plasma. Lo sviluppo della qualità delle connessioni nel nostro cervello e del suo benessere avviene grazie all’interazione. Col mondo esterno. E in particolare attraverso le relazioni interpersonali. Non è difficile quindi pensare all’isolamento relazionale e fisico, durante il lockdown, come un evento che potrebbe facilitare la degenerazione di cellule cerebrali. Processo già in atto in alcuni soggetti colpiti da demenze cognitive e morbo di Alzheimer”.

Può farci un esempio?
“Uno studio dell’Asl di Vercelli ha confermato questa ipotesi. Arrivando alla conclusione che persone anziane, non colpite da Covid, hanno avuto un decadimento cognitivo. Misurato tra l’altro con un test efficace. La misura, ripetuta negli anni, ha rilevato un deterioramento doppio delle capacità rispetto al periodo pre-Covid”.

La depressione appare sempre più diffusa. Quali sono le fasce di età maggiormente colpite dal “male oscuro”?
“Studi statistici tra i quali quello dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), i soggetti più a rischio di essere colpiti da disturbi depressivi sono i disoccupati. La fascia della popolazione a basso livello d’istruzione. I giovani, le donne e gli anziani. Essi mostrano che la perdita di produttività lavorativa è tra i principali determinanti della cattiva salute mentale. Il Dipartimento di Salute Mentale dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” rileva che, durante le chiusure sono aumentati i sintomi dello spettro ansioso-depressivo. Ossessivo-compulsivo. E post-traumatico. Soprattutto nei soggetti di sesso femminile. In particolare sopra i 65 anni”.

A cosa si riferisce?
“La durata dell’esposizione al lockdown ha rappresentato un fattore predittivo significativo del rischio di presentare peggiori sintomi ansioso-depressivi. In un altro studio dello stesso Istituto Superiore di Sanità si sottolinea che le fasi di lockdown durante la pandemia hanno reso più depressa la popolazione italiana. Particolarmente nella fascia d’età che riguarda i giovani tra fino ai 34 anni. Un forte impatto ha avuto nei giovani adolescenti la chiusura delle scuole. Con la limitazione delle occasioni di socializzazione. La riduzione dell’attività fisica. Le sensazioni di pericolo. E stress. Dai dati su ricoveri, ideazione e tentativi suicidari dell’ospedale Bambin Gesù di Roma, si osserva un forte incremento di casi a marzo, aprile e dicembre-gennaio. Ossia i periodi di lockdown e misure restrittive di isolamento”.

In che modo si può scongiurare il rischio che gli anziani si richiudano in sé stessi trasformando la terza età in una fase di progressiva perdita di relazioni sociali?
“Se da un lato l’isolamento sociale può produrre gli effetti fin qui descritti, si può immaginare allora quanto sia potenzialmente benefica la stimolazione cognitiva. Attraverso l’implementazione di relazioni ed altri tipi di attività. Parlare con loro. Relazionarsi. Chiedere ed essere curiosi verso ciò che pensano. Come si sentono. Verso le semplici attività quotidiane. Rievocare i ricordi. Anche con l’osservazione di oggetti, foto, musica, libri. O ciò che può stimolare memoria e sensazioni positive. Fondamentale rimane l’impegno nelle attività quotidiane e nella loro pianificazione”.

Quali in particolare?
“Dal riordinare la casa alla preparazione dei pasti, ai contatti con persone care. All’elenco della lista della spesa. Fino ad attività più ludiche, ad esempio giocare a carte. Nel rispetto delle capacità e delle possibilità è fondamentale che le persone anziane si percepiscano come utili a loro. Ai propri cari ed alla società in generale. Cucinare un pasto per la famiglia. O semplicemente aiutare in alcune fasi. Offrire consigli per una ricetta. Come riconoscere la qualità di alimenti. Sono solo alcuni esempi di come offrire occasioni di elevare la loro autostima. E sentirsi ancora parte della società. Preziosa la disponibilità di associazioni che presentano occasione di socializzazione anche in piccoli gruppi. Da non trascurare l’aspetto del movimento fisico. Sempre misurato alle possibilità individuali. E’ ormai assodato che il movimento e soprattutto all’aperto stimola la produzione di endorfine. Ormoni che facilitano un buon tono dell’umore”.

Fonte: Giacomo GALEAZZI | InTerris.it

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