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Le fosse comuni in Canada e la morte di Raiola: come nasce una fake news

Due esempi attuali di come nascono le fake news accreditate dai principali quotidiani: la morte del procuratore Mino Raiola e le fosse comuni delle scuole residenziali canadesi. La prima smentita dallo stesso protagonista, la seconda dall’assenza di foto e dagli ex studenti.

Ieri tutto il mondo si è reso conto di cosa sia diventato oggi il giornalismo.

Dato per morto da tutti i media nella mattinata di ieri, il re dei procuratori Mino Raiola ha twittato dichiarando di essere vivo e arrabbiato per quanto si stava dicendo di lui.

Ai fiumi di inchiostro, alle migliaia di articoli, ai miliardi di post sui social sulla sua morte sono così seguiti altrettanti articoli e tweet di rettifica, il tutto nel giro di poche ore.

Difficile capire da chi sia nata la fake news, ancora più inspiegabile che nessuno abbia verificato prima di scrivere.

La verità non conta, basta ripubblicare la stessa cosa.

L’importante per i giornalisti è arrivare primi o comunque dimostrare di esistere ed essere “sul pezzo” scrivendo una news che altri trecento colleghi hanno già pubblicato, magari su quotidiani più blasonati.

Nessun approfondimento, nessuna iniziativa personale, solo un mero esercizio di ripubblicare allo sfinimento lo stesso fatto spesso con identiche parole.

In secondo piano passa la verità, la realtà dei fatti: è sufficiente che qualcuno di più autorevole l’abbia pubblicata per far diventare automaticamente vera qualunque notizia.

Le fake news raramente sono totalmente inventate, spesso hanno una base di verità che le rende apparentemente credibili. Raiola, ad esempio, non è morto ma è ricoverato in gravi condizioni in ospedale (i nostri migliori auguri!).

 

Le fosse comuni in Canada: nessuna foto, ma non importa.

Un altro esempio recente di colossale bufala giornalistica è quella delle fosse comuni canadesi ritrovate nel giardino delle scuole residenziali, di proprietà statale ed amministrate per la maggior parte dalla Chiesa cattolica.

Ce ne siamo occupati nel febbraio scorso e ad inizio aprile abbiamo intervistato Jacques Rouillard, docente emerito di Storia all’Università di Montreal e tra i massimi esperti di storia del Quebec.

Ma non esiste nessuna fossa comune, la fake news è nata nel 2021 da un antropologa che ne ha ipotizzato l’esistenza rilevando con un georadar depressioni e anomalie nel terreno.

Pur non avendo mai realizzato neppure un piccolo scavo, i media canadesi hanno dichiarato il ritrovamento di 315 (!) resti umani in una fossa comune (è ancora un mistero da dove sia nato quel numero così preciso). La notizia è esplosa nel mondo quando il primo ministro Justin Trudeau ha rilanciato la “scoperta” tramite un tweet.

Così, ogni quotidiano del globo ha dato per vera la fossa comune. Eccezioni a parte, come il settimanale britannico The Spectator.

Come nel caso di Raiola, i giornalisti si sono copiati a vicenda senza porsi alcun dubbio nonostante l’assenza di foto o immagini della presunta fossa, degli scavi o dei 315 resti (al contrario dell’abbondanza di immagini delle fosse comuni di Bucha, in Ucraina).

L’errore commesso anche dai media cattolici.

Anche i media cattolici italiani hanno fatto lo stesso, accodandosi senza criterio e senza verifica ai grandi quotidiani.

Il primo a scrivere delle fosse comuni in Canada è stato Vatican News. Questo ha autorizzato anche Avvenire a scrivere lo stesso e l’amico giornalista, autore dell’articolo, ci ha risposto: «La mia fonte è Vatican news che ha scritto la stessa notizia».

A differenza del caso di Raiola, nessuna delle presunte vittime può alzare la mano e dire “non è vero”.

Gli ex studenti contro gli attuali leader indigeni.

Ci sono però ex studenti delle scuole residenziali canadesi, come le sorelle Whiteman, che hanno smentito.

L’idea di tombe appartenenti ai bambini che frequentavano queste scuole, dicono, «vive di vita propria, è bastato che i media raccogliessero queste storie», lamentano.

A volte, com’è normale che sia, a fianco delle scuole si trovano semplici cimiteri ed «i più vecchi tra noi sanno che non ci sono solo bambini», spiegano. «Furono sepolti i contadini e anche membri della comunità Métis seppellivano persone nel nostro cimitero».

Vedere moltiplicarsi questa falsa notizia «è stato molto sconvolgente, per non dire altro», sostengono le ex alunne. «Si è diffusa a livello nazionale quasi subito, dall’oggi al domani».

 

Abusi nelle scuole residenziali? Qualcosa non torna.

Gli attuali leader indigeni, in visita anche dal Papa in Vaticano, stanno raccontando al mondo degli abusi e delle violenze che sarebbero avvenute nelle scuole residenziali canadesi, così che chi non parla di genocidio fisico parla invece di genocidio culturale.

Eppure lo stesso storico Jacques Rouillard ma anche James C. McCrae, ex procuratore generale di Manitoba e Tom Flanagan, professore emerito di Scienze politiche all’University of Calgary, hanno messo fortemente in dubbio la loro affidabilità.

Una ricercatrice indipendente canadese, Nina Green, sta dimostrando giorno dopo giorno tramite lo studio degli archivi quando le antiche comunità indigene tenessero alle scuole residenziali. Ne parleremo dettagliatamente in un prossimo articolo.

In una relazione datata 18/01/1930, ad esempio, inviata dal Sovrintendente Generale per gli Affari Indiani al Comitato del Privy Council, si evince che quando la Old Sun Indian Residential School bruciò in un incidente nel 1928, la comunità indigena Blackfoot Indian Band fu così ansiosa di ricostruirla il più rapidamente possibile che prestò addirittura al governo federale $80.000 dal proprio fondo fiduciario.

Questo ovviamente contrasta con l’idea che le comunità indiane fossero contrarie a queste scuole o che esse furono luoghi di ripetuti abusi e violenze fisiche. Ciò ovviamente non significa che non ve ne furono in assoluto, ma bisogna quantomeno provarli.

Il vero obbiettivo degli attuali leader indiani, secondo Rouillard, è diffondere queste voci (senza preoccuparsi di dimostrarle) per ottenere risarcimenti milionari da parte della Chiesa, così come li hanno già ottenuti dal governo canadese.

Anche le sorelle Whiteman, ex studentesse delle scuole residenziali, hanno drasticamente criticato gli attuali leader indigeni: «Avrebbero dovuto chiedere il consiglio della generazione più anziana, chiedi loro la storia per come la ricordano. Eravamo lì. L’abbiamo vissuta. Dovremmo saperlo. Non pretendo di avere 110 anni, di sapere tutto, ma penso di aver sperimentato abbastanza quanto accadde nella scuola residenziale per ricordare non solo i momenti brutti ma anche quelli belli».

Fonte: UCCRonline.it

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