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Grande, umanissimo antidoto ai conflitti. Fare famiglia non la guerra

In quello straordinario repertorio di memoria collettiva che sono le ‘Teche Rai’ è conservato tra l’altro un documentario di rara efficacia, soprattutto se rivisto in questi giorni come ulteriore chiave di lettura per la guerra che stiamo vivendo. È stato girato nel 1962 e si intitola ‘La lunga strada del ritorno’ (si può guardare attraverso Rai play). Racconta le testimonianze di decine di combattenti della Seconda guerra mondiale.

Mescola, senza commenti e senza ricostruzioni storiche, anche perché in quegli anni la maggior parte degli italiani aveva ricordi ancora vivissimi, le testimonianze di chi ha vissuto gli orrori della guerra sui vari fronti che videro impegnati i nostri soldati (Africa, Russia, Grecia…) con le memorie delle famiglie mutilate da quella tragedia. Madri e padri che raccontano la partenza di un figlio, gli abbracci davanti a una tradotta da cui si affacciavano volti già segnati che solo la propaganda di regime pretendeva di vedere felici di imbracciare le armi, l’inutile attesa di notizie in un’epoca senza social e senza smartphone, poi quella comunicazione ufficiale, la vita stravolta. La telecamera registra lacrime e ricordi, inquadra poveri oggetti talvolta recuperati da un commilitone pietoso e consegnati ai genitori perché possano piangere toccando qualcosa.

Strazio e famiglie spezzate, dolore e domande senza risposte. Come sempre, quando l’umanità con i suoi valori più belli si ritrae per lasciar posto al disvalore delle armi. Quasi ci sia un filo ininterrotto di tragedia e di sangue tra quelle povere immagini traballanti in bianco e nero di sessant’anni fa e quelle che ci vengono riconsegnate in questi giorni da tutti i media. Nulla come la sofferenza delle famiglie è in grado di scendere così in profondità nel senso, o meglio nell’insensatezza della guerra.

Quando la riflessione si sposta dal piano strategico, dagli scenari internazionali, dalla cartine con il movimento delle unità militari ai volti delle madri, a quelli dei padri che lasciano figli e moglie per tornare a combattere, agli sguardi incerti dei soldatini russi di leva smarriti e vaganti di fronte alla solidarietà inattesa delle donne ucraine che offrono loro cibo e bevande, tutte le grandi questioni belliche vengono riportate all’essenza della loro realtà. Che è essenza umana, impastata di carne e di emozioni, di affetti e di vita. Perché è questa umanità ordinaria e ferita, sono questi volti e questi sguardi annichiliti che rappresentano la più radicale negazione della logica che spinge a muovere carri armati e missili.

Da una parte c’è la verità delle famiglie, la bellezza delle relazioni, il senso ultimo dell’essere umano che, a tutte le latitudini, al di là di tutte le frontiere, oltre le cortine di ogni genere, parla la comune lingua dell’amore. Dall’altra il senso cupo dell’odio e della menzogna, l’azzeramento di ogni scelta d’umanità.

Dalla prima pagina Spezzare le famiglie, infliggere loro sofferenze inaudite e immotivate, disintegrare case e affetti è l’obiettivo ultimo di tutte le guerre decise dalla follia dei dittatori che pretendono di ridisegnare il mondo ignorando la realtà, pianificando deportazioni, spargendo orrore e morte. Forse perché la famiglia, pur con le tutte le sue umane fragilità, con le tutte le sue incertezze e deviazioni, rimane l’alveo naturale e irrinunciabile per conservare ciò che di più prezioso e di più autentico ci è stato donato, la vita che nasce dall’amore.

Vertice umano di un mistero di fronte al quale tutte le culture e tutte le fedi avvertono la grandezza e, in qualche modo, il dovere di un’inviolabilità che rimanda a un senso ultimo che ci supera. Al contrario, l’odio sistematico scatenato dalla guerra che colpisce e frantuma, proprio perché separa le famiglie, allontana e uccide figli e genitori, miete bambini e anziani, spezza la trama tenue eppure tenace delle relazioni più importanti, diventa baratro oscuro e insondabile di un male così pesante e così vasto che ci lascia sgomenti e senza risposte. Le relazioni familiari come senso più fondato e più luminoso dell’esistenza di fronte all’insensatezza più cupa e più assurda della guerra. E noi, come i padri e come le madri di cui quel vecchio documentario Rai ci restituisce tutta l’immediatezza, non ci stanchiamo di chiedere perché.

Fonte: Luciano MOIA | Avvenire.it

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