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Speranza contro morte nella Terra dei Fuochi

Di “avvertimenti” ne ha avuti tanti. L’ultimo, l’11 marzo scorso, giorno del suo compleanno. Una bomba carta è esplosa davanti al cancello della sua parrocchia, la chiesa di San Paolo Apostolo, al Parco Verde di Caivano, un comune di circa 45.000 abitanti a pochi chilometri da Napoli. Ma don Maurizio Patriciello non è per nulla intimorito. «Perché dovrei avere paura? Non ho fatto niente di male». Più che altro è dispiaciuto. «Tantissimo, ma per loro, per quelli che hanno intrapreso questa strada di morte, di sofferenza, di inciviltà e di prepotenza».

Per le sue battaglie contro la camorra e contro la devastazione ambientale nella cosiddetta Terra dei Fuochi è stato definito “sacerdote coraggio”, ma lui si schermisce. «I preti coraggio non esistono, i preti anticamorra non esistono, i preti ambientalisti non esistono. Esistono solo i preti, persone innamorate di Gesù che non si limitano a benedire le bare dei bambini che muoiono di cancro ma si chiedono anche il perché». Il suo apostolato è cominciato nel 1990, quando, nominato sacerdote, è stato destinato in questo quartiere, un coacervo di bruttezza, malvivenza, devianza, povertà. «Mai avrei scelto di venire qui», dice don Maurizio, gli occhi buoni e sorridenti. Del resto, nei suoi anni giovanili mai avrebbe detto che sarebbe diventato un sacerdote. Il suo percorso, infatti, è stato lungo e tortuoso, pieno di incontri fulminanti, di fatti imprevedibili, di porte girevoli.

Nato a Frattaminore, un comune a una decina di chilometri da Napoli, Maurizio comincia «una sorta di ricerca» a 16 anni, dopo la scomparsa improvvisa della madre a soli 59 anni. «Ho chiesto aiuto ai due parroci del mio paese, ma loro non hanno intercettato la mia richiesta e io mi sono allontanato dalla chiesa». Diventa infermiere e comincia a lavorare. L’incontro con un sacerdote protestante lo spinge a entrare in una comunità evangelica, dove rimarrà per dieci anni. «Ma c’erano cose che non mi convincevano». Gli studi all’Istituto Biblico evangelico di Roma lo rendono ancora più inquieto. Poi, un giorno, conosce qualcuno che cambierà radicalmente la sua vita. «Sul ciglio della strada verso Napoli, vedo un giovane uomo strano, scalzo, che fa l’autostop. Gli do un passaggio e scopro che è un sacerdote appartenente all’ordine dei Frati Minori Rinnovati. Dopo qualche giorno sono andato a trovarlo. Dietro all’apparenza dimessa, ho scoperto un teologo ferratissimo, colto, che viveva in totale povertà, ligio agli insegnamenti di san Francesco. Fra Riccardo ha sciolto tutti i miei dubbi teologici. È grazie a lui che ho recuperato i principi della fede cattolica». Il bisogno di approfondire spinge il giovane a iscriversi alla facoltà di Teologia e, dopo un anno, a lasciare il lavoro e a entrare in seminario, «sono scivolato verso il sacerdozio».

Don Maurizio ha 34 anni quando arriva al Parco Verde di Caivano, dove, dopo il terremoto in Irpinia del 1980, erano stati trasferiti gli abitanti del centro storico di Napoli. «Un errore madornale dal punto di vista pedagogico, urbanistico, sociale, spirituale, economico. Qui, un tempo, c’erano le nostre campagne per cui, quando è arrivata questa gente, quelli del posto non l’hanno accettata. Anche perché, insieme a tante famiglie perbene, sono arrivati anche i clan che gestiscono il grosso della droga, i quali sono entrati subito in conflitto con quelli già presenti sul territorio». Il neo parroco si trova così proiettato in una delle piazze di spaccio più grandi d’Europa, in mezzo al fuoco incrociato di fazioni camorristiche in guerra tra di loro, in una popolazione con un alto tasso di tossicodipendenza e «nessuno che andava a messa». Ma non si perde d’animo. Rende più accogliente la chiesa e comincia a lavorare con i bambini, molti dei quali con un destino già segnato. «Tutti quelli che sono morti sono passati da qui. Uno me l’hanno ucciso sulla porta della parrocchia, sono stato il primo a correre per dargli la benedizione. Anche il padre è stato ucciso qui fuori, e un altro, che avevo sposato sei mesi prima, è stato freddato sull’uscio di casa. L’ultimo, Antonio, 22 anni, è stato ritrovato cadavere dopo 14 giorni dalla scomparsa, a ottobre scorso. Una strage. Questi giovani sono abbagliati dai soldi e cadono facilmente nelle mani della criminalità organizzata. Una trappola che li fagocita, li stritola. Quello che manca è l’alternativa, la mancanza di un’altra possibilità».

Ma non è solo la droga a intossicare i corpi, le menti e l’anima dei caivanesi. A un certo punto, viene a galla il problema degli sversamenti abusivi dei rifiuti e dei roghi tossici. «Eravamo sommersi da un fumo nero dalla mattina alla sera, mi chiedevo cosa stesse succedendo. Io sono solo un prete, non avrei dovuto interessarmi di certe cose, per quelle c’è la politica, le forze dell’ordine. Ma quando mi sono reso conto che nessuno faceva nulla, nonostante il numero spropositato di morti per tumore, ho capito che dovevo fare un salto in avanti. Ho messo da parte i miei libri di letteratura e di teologia e ho iniziato a interessarmi di immondizia».

Cominciano i convegni, gli incontri pubblici e le apparizioni sui media. Le mamme dei bambini morti di cancro creano l’associazione Noi genitori di tutti, che è molto attiva sul territorio nazionale. Con l’attività di denuncia cominciano anche le minacce e le accuse «ma avevamo la ragione dalla nostra parte e qualche cosa, seppur lentamente, cominciava a muoversi». Nel 2015, viene promulgata una legge sui reati ambientali (Legge 68) con cui, finalmente, si poteva contrastare il fenomeno e, nel febbraio del 2021, l’Istituto Superiore di Sanità ha finalmente riconosciuto che in quel territorio ci si ammala di cancro più che in qualsiasi altra zona d’Italia.

Eppure, nulla cambia. A Caivano si continua a morire. Per le esalazioni velenose, i regolamenti di conti, la droga. Nella totale assenza di chi dovrebbe e potrebbe fare qualcosa. Così, nel novembre scorso, è nato il Comitato di liberazione dalla camorra – Area Napoli Nord, «Per rompere la solitudine. E per parlare agli indifferenti, ai distratti, a chi ha perso la speranza che le cose possano cambiare. La mafia si sconfigge in maniera definitiva solo se esiste una diffusa coscienza sociale». Un’iniziativa, quella del Comitato, che, evidentemente, fa paura. «Stiamo alzando la voce, magari abbiamo dato fastidio», dice il sacerdote, pensando all’attentato di qualche giorno fa. I bambini ci guardano. «I giovani hanno bisogno di persone in cui riporre fiducia. Quando sono piccoli ti credono poi, a un certo punto, non ti credono più, perché da una parte hanno la povertà, la miseria, dall’altra i soldi, la bella vita. È normale che ci si buttino dentro. Dobbiamo intervenire quando sono piccoli, perché dopo non li riacchiappiamo più». Come si fa a sopportare tutto questo dolore? «È l’altare, è Lui. E la convinzione di combattere una battaglia giusta». E le minacce? «Io dei camorristi non ho paura. Lo so, potrebbero uccidermi, e forse lo faranno. L’ho messo in conto fin dal primo momento in cui sono stato ordinato prete. Io, qui, non ci sarei venuto neanche per un istante, ma ora non andrei più via. Potrei fare un sacco di cose in un altro posto ma mi verrebbe sempre il dubbio: “Sì, hai fatto tanto, ma non era quello che ti aveva chiesto il Signore”. Quando sono stanco, magari, mi ribello. Ma subito dopo chiedo perdono, “Signore, sia fatta la tua volontà”, e ricomincio. Ho battezzato la maggior parte dei giovani, come potrei abbandonarli? Mi sentirei di tradirli, non lo farei mai! E poi in nessun altro posto mi sentirei a mio agio. Chissà, forse mi annoierei».

Fonte: Marina PICCCONE | L’OsservatoreRomano.it

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