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Giornata per la vita: del concepito come del debole o del disabile

La giornata per la vita, che la Chiesa italiana celebra ogni anno, alla prima domenica di febbraio, sia occasione per ricordare e prevenire non soltanto la tragedia dell’aborto e l’uccisione dei concepiti, ma anche le stragi compiute in passato in nome del darwinismo sociale e della purezza della razza, e oggi proiettate, per via referendaria, legislativa e giudiziaria, all’affermazione della completa disponibilità della vita.

La riprogrammazione televisiva di questi giorni, in concomitanza con la Giornata della Memoria, in rievocazione della persecuzione nazionalsocialista antisemita, del film ‘Good–L’indifferenza del bene’, una produzione anglo-tedesca del 2008, offre spunti di riflessione che consentono di andare oltre nella considerazione della barbarie della Shoah. Il movie, tratto da una pièce teatrale del drammaturgo inglese C.P. Taylor, ha per protagonista John Halder, un docente di letteratura, interpretato da Viggo Mortensen, inizialmente tiepido verso l’ascesa al potere del Partito nazionalsocialista, dal quale viene poi progressivamente attratto e irretito, a causa dell’attenzione che alcuni dei suoi più alti esponenti mostrano per il suo romanzo pro eutanasia: in esso l’autore ricostruisce la storia di una malattia incurabile e la morte che da ultimo è procurata per porre fine a non sofferenze più sopportabili.

Il protagonista del film si iscrive al Partito, abbandona la moglie nevrotica e la madre, con loro convivente, affetta da demenza senile e si risposa con una giovane allieva, mantenendo i legami con il passato solo per il tramite del suo psicanalista, ebreo, di cui però perde i contatti dopo l’epurazione della Notte dei Cristalli. Solo durante la guerra ne ritroverà le tracce che lo porteranno in un lager, dove scoprirà di essere arrivato troppo tardi: l’amico era già stato ucciso come altri milioni di ebrei, vittime della ‘Soluzione Finale’, cioè del progetto di deliberata e organizzata eliminazione dell’elemento ebraico dal Reich, elaborato ed approvato alla Conferenza di Wansee, tenuta alla fine di gennaio 1942.

Colpisce la felice intuizione della sceneggiatura di legare l’entusiasmo nazionalsocialista per l’eutanasia alla Shoah. Il programma Aktion T4, approvato nel 1933, ben prima della Soluzione Finale, e anzi ufficialmente chiuso il 1 settembre 1941, prevedeva la soppressione, sotto controllo medico, delle persone affette da malattie genetiche inguaribili e da handicap mentali (ovvero anche fisici per i casi più gravi): di vite, cioè, indegne di essere vissute, espressione letterale dei due autori principali del movimento eugenetico tedesco, Alfred Hoche e Karl Binding.

L’applicazione di tale programma procurò la morte di un totale di persone computate tra le 60mila e le centomila: esso traeva ispirazione dalla ideologia di preservazione della razza ariana dalla contaminazione di geni impuri, in applicazione di teorie eugenetiche che risalgono, nella loro originaria elaborazione, a Darwin, per il tramite della mediazione di suo cugino, Francis Galton, e alla sua pretesa di selezione sociale dei caratteri genetici positivi ed alla eliminazione di quelli negativi. Il darwinismo sociale aveva peraltro trovato proselitismo normativo in alcuni degli Stati dell’USA (tra cui la California), nel Regno Unito ed in Svezia dagli inizi del XX secolo, e successivo terreno fertile nella Germania postbellica degli anni 1920, e infine nella Germania nazionalsocialista, fautrice del vitalismo ariano e della purezza della razza (sul punto cf. Mauro Ronco, La lotta contro gli inadatti in Il “diritto” di essere uccisi: verso la morte del diritto? (a cura di M. Ronco), Giappichelli Torino 2019, pagg. 135 -195).

La volontà del Partito-Stato del Terzo Reich di imporre agli individui malati la morte per preservare la purezza del Volk è, in verità, ispirata dalla medesima logica che in quegli stessi anni (e poi, tragicamente, ben oltre) conduce l’URSS comunista alle purghe staliniane nei confronti dei nemici – anche qui – del popolo, in uno sforzo costruttivista di pulizia sociale di lotta di classe contro chi mina le progressive e magnifiche sorti dello Stato socialcomunista, che si compirà con l’uccisione di cento milioni di persone nell’universo concentrazionario dei GULag.

Il tratto comune, sia ai carnefici dei lager che ai fautori dell’eutanasia legale, risiede nella considerazione che la vita non è un bene in sé, non costituisce diritto indisponibile, ma è meritevole di tutela solo e nella misura in cui chi ne é titolare o, peggio, lo Stato (o quale altro organismo collettivo decisore), ritenga che lo sia.

Così, magari col pretesto – come nel romanzo del professor Halder – della compassionevole esigenza di porre fine alle indicibili sofferenze del malato terminale (non è forse questo lo stigma della propaganda di legalizzazione dell’eutanasia?), si introduce la prassi, prima, la norma, poi, che consentono di procurare la c.d. ’dolce morte’; un consentire che, spesso, è piuttosto un imporre, come accade di fatto già nel Regno Unito dove i protocolli sanitari del NHS–National Health Service, già da ben prima del COVID, prevedono di praticare le cure agli anziani assumendo come priorità il rapporto costi – benefici in ragione della loro aspettativa di vita.

Mai come quest’anno, la abituale – e mai sufficiente – declinazione della celebrazione della giornata per la Vita, oltre a ribadire la radicale ingiustizia dell’aborto che uccide i bimbi ancora non nati, deve accompagnarsi, in vista della campagna pro death, sia referendaria sia parlamentare, alla proclamazione della assolutezza del diritto alla vita e alla sua indisponibilità, da parte dell’individuo come dello Stato.


Fonte: Renato Veneruso | CentroStudiLivatino.it

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