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E se ricominciassimo dalle attese della vita?

A Natale il verbo “attendere” si spreca. Ma cosa desiderano davvero i nostri ragazzi? Per saperlo c’è solo un modo, prendere sul serio la vita

Caro direttore,
sarà anche questo colpa del Covid, ma quest’anno una domanda non vuol lasciarmi in pace, in questo tempo di festa. E mi ha fatto tornare in mente un racconto di Italo Calvino, I figli di Babbo Natale.

Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati (…) Alla Sbav quell’anno l’Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale. L’idea suscitò l’approvazione unanime dei dirigenti. (…) l’Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l’Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l’Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V. Tutti erano presi dall’atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto – come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta. In magazzino, il bene – materiale e spirituale – passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall’Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra ‘tredicesima mensilità’ e ‘ore straordinarie’. Con quei soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio”.

Al tempo del Natale il verbo “attendere” si spreca. Ci inseguono i ritornelli su ciò che attendiamo. Si predispone bene la scena: le luci, gli alberi, le musiche per l’atmosfera. Si sente nell’aria che qualcosa può accadere, che si può essere di più. Come se finalmente, con il Natale, fosse arrivato il tempo di essere felici. Si desidera in modo struggente la felicità. E come ogni anno, quando tutto passa, le stelle, le luci che facevano allegria, le musiche che mettevano di buon umore cominciano a velarsi di malinconia. Passa, il Natale, e con esso l’attesa. Almeno quella apparente. E diventa più crudo il grido, come nel quadro di Munch. Silenzioso e penetrante. Il grido che alberga nel cuore dell’uomo.

In questi giorni ho osservato con maggiore attenzione gli occhi dei ragazzi. I loro sguardi persi nel tempo più bello dell’anno, quello in cui siamo tutti più buoni. Cosa hanno desiderato veramente? La fine del Covid? La fine della scuola? Un lungo attimo di distrazione? E quando il Natale è passato? Resta la certezza che dura un istante perché l’attesa non regge la realtà. Che è pesante, faticosa. Si può mai vivere desiderando una fine? E tutti i buoni propositi, gli auguri etici, che fine hanno fatto?

Eppure tutti siamo in attesa di qualcosa. Solo che, se non sappiamo cosa o chi attendiamo, resta solo la percezione che non sia arrivato. Per un altro anno ancora. Che occorrerà dimenticare per ricominciare la vita normale, senza attesa. E cominceremo di nuovo a discettare se è meglio un esame di maturità che insegni a scrivere ai ragazzi senza domandarci perché non glielo abbiamo insegnato per tempo. O come far diventare seria una scuola senza prender sul serio la vita. Dopo Natale è il tempo di chiedersi cosa attendono veramente i nostri ragazzi. E, soprattutto, cosa attendiamo noi.

Fonte: Filomena Zamboli | IlSussidiario.net

 

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