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Afghanistan. Dal morbillo alla polio, 5 epidemie e niente fondi. Sanità al collasso

Negli ospedali mancano gli equipaggiamenti, mentre si moltiplicano le sfide, dal morbillo alla polio 

 

“Vedete questa bambina? Una paziente così piccola avrebbe bisogno di una pompa per infusione endovenosa che assicuri di somministrarle una quantità di liquidi non troppo abbondante. Qui non ce l’abbiamo. E l’incubatrice? Il dispositivo per riscaldare era rotto, ho recuperato dei pezzi e l’ho sistemato da solo”. A raccontarlo allo staff dell’Oms è il dottor Atiqullah Halimi, pediatra dell’unità di terapia intensiva neonatale del Malalay Maternity Hospital di Kabul.

Scarsi gli equipaggiamenti, assente la manutenzione: di questi problemi si occupava una Ong tedesca fino ad agosto, finché i taleban non sono arrivati nella capitale. Da allora molti operatori umanitari internazionali hanno lascito il Paese. Non è un’eccezione nemmeno il fatto che il dottor Halimi, di sera, porti la cena al personale del turno di notte, che altrimenti rimarrebbe senza mangiare. La struttura non ha più cibo per dipendenti né pazienti. C’è carenza di personale, di forniture, persino di carburante ed elettricità nel sistema sanitario dell’Emirato islamico al collasso.

Ciò che invece proprio non manca sono le sfide da affrontare in corsia. La lista è lunga, disarmante, inversamente proporzionale alle forze sul campo: diverse le epidemie in corso, morbillo, polio, febbre dengue, focolai di diarrea acuta, e, ovviamente, la pandemia. Rispetto a quest’ultima l’Oms riferisce di casi sottostimati, pochi tamponi e solo 40 squadre di risposta rapida Covid (Rrt) rispetto alle 307 operative fino a luglio.

Un’epidemia di morbillo è attiva da inizio anno, un focolaio di febbre dengue da fine settembre. Un po’ di speranza arriva dalla lotta alla polio: lunedì Oms e Unicef hanno avviato una nuova campagna di immunizzazione, la seconda da agosto. In queste ore si stanno raggiungendo bambini in zone in passato inaccessibili. Pessime, invece, le notizie che giungono dal fronte della malnutrizione: l’Oms stima che 1 milione di bambini sotto i cinque anni rischi la vita, ma anche oltre la metà della popolazione afghana – una cifra record di 22,8 milioni di persone – affronterà un’insicurezza alimentare acuta ad inizio 2022.

Lo ha ricordato ieri anche la vice ministra degli Esteri, Marina Sereni, in un convegno a Trento. Nelle stesse ore arrivava la notizia dell’aumento del prezzo del pane, dopo quelli di olio, farina e altri alimenti.

A pesare in maniera diretta su salute e alimentazione ma, in fondo, su ogni singolo aspetto della vita, è, sin dall’avanzata taleban, la sospensione repentina degli aiuti internazionali, che prima finanziavano il 75% delle spese del governo. L’Occidente teme che gli aiuti finiscano nelle mani sbagliate, ma l’attuale regime di sanzioni contro i leader taleban rende arduo prevenire il collasso. Circa 60 milioni di dollari sono stati affidati a Oms e Unicef per sostenere oltre 2.000 strutture sanitarie (ma non i centri Covid) fino a gennaio.

Non si sa cosa accadrà dopo. Altri 280 milioni di dollari dovrebbero venire erogati a breve dalla Banca mondiale a Pam e Unicef per gli stipendi di medici e infermieri. Di fronte a dubbi e resistenze dei Paesi donatori, sostenere la sanità dovrebbe essere più praticabile: da anni la fornitura di servizi medici è assicurata da contratti con Ong nazionali ed estere, bypassando il ministero della Salute.

Più complicato, invece, sarà finanziare il sistema scolastico, con denaro che transiterebbe dalle casse dei nuovi padroni islamisti. Casse che oggi sono vuote: le riserve della banca centrale afghana, quasi 10 miliardi di dollari, gran parte detenute negli Usa, sono congelate da agosto. La Banca Mondiale tiene fermi altri 1,5 miliardi, di cui 1,2 stanziati per progetti concordati dal governo precedente. Secondo il Financial Times “ci vorranno mesi prima che vengano perfezionati i complicati requisiti legali necessari per sbloccare i fondi” forse nel “primo trimestre fiscale del 2022”. Per molti afghani potrebbe essere troppo tardi.

Fonte: Francesca Ghirardelli | Avvenire.it

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