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Per Sarah la questione migratoria è una «malattia» che va combattuta alla radice

«La mia reazione è ribellarmi». Ha esordito così il proprio commento Robert Sarah, cardinale africano della Chiesa cattolica, prefetto emerito della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, intervistato ieri mattina da Sonia Mabrouk per Europe Matin in merito alla morte di almeno 27 migranti provenienti dall’Africa avvenuta mercoledì nella Manica, al largo della città francese di Calais.

Sarah ha quindi dato corso al proprio pensiero – di certo controcorrente e probabilmente destinato a suscitare non poche polemiche – spiegando come a suo avviso, alla base di eventi come quello appena richiamato vi sia «un triplice tradimento».

Innanzitutto, ha spiegato, i giovani africani che decidono di intraprendere quello che viene definito “il viaggio della speranza” vengono nei fatti «derubati del loro Paese, della loro intelligenza, della loro vita». E questo perché, e qui sta il secondo tradimento, «a questi giovani viene presentata l’Europa come un Eldorado, viene detto loro che avranno tutto, quando questo non è vero»: spesso, infatti, la vita che molti migranti si ritrovano poi a condurre in un Paese che non è il loro non è così rosea come viene descritta, anzi, anche alla luce dei problemi che l’Europa sta affrontando. Infine, ha chiuso il ragionamento il cardinale andando a toccare un aspetto tanto caldo quanto sovente poco preso in considerazione, «non reagiamo contro i contrabbandieri che approfittano della loro ingenuità e li fanno soccombere in mezzo al mare».

Insomma, quella della migrazione così come la vediamo attuarsi oggigiorno è una vera e propria «malattia», secondo Sarah, e in quanto tale va combattuta: per il bene dell’Africa, in primis, ma anche della stessa Europa. Vanno sempre infatti considerate entrambe le facce della medaglia, senza soffermarsi a un giudizio superficiale e spesso ideologico che vorrebbe fare dell’accoglienza un criterio indiscriminato cui sottomettersi: è giusto accogliere e aiutare l’altro, certamente, ma questo va fatto rispondendo nella modalità migliore ai suoi bisogni, senza con questo dimenticare i propri.

In tale ottica, ha proseguito Sarah, i confini non vanno annullati, anzi: «L’importante», ha affermato ancora ai microfoni di Europe Matin, «è aiutare l’Africa a svilupparsi a livello locale e garantire che questi giovani trovino lavoro e rimangano a casa», avendo così la possibilità da un lato di servire il proprio Paese e dall’altra di conservare «le proprie radici, la propria ricchezza culturale e storica, e comunicarla poi ai propri figli».

Un ragionamento, questo, che è in fondo quello che ha mosso e ancora muove tanti missionari che decidono di investire parte, o tutta, la propria vita andando a vivere in Africa o in altri Paesi bisognosi per portare le proprie competenze e conoscenze e metterle a disposizione delle popolazioni più bisognose: un aiuto che non è un mero assistenzialismo fine a se stesso e destinato a concludersi, bensì si configura più come una sorta di educazione, un passaggio di consegne che porta in sé il seme della crescita, di un progresso inteso in senso buono.

Guardando quindi all’altro lato della medaglia ma prestando di fatto fede agli stessi principi di salvaguardia dei confini e delle radici, per il cardinale, le politiche di accoglienza che l’Europa sta mettendo in campo la stanno portando verso «l’autodistruzione», perché se non cambia qualcosa «sarà invasa da una popolazione straniera».

E il rischio, anche in questo caso, è appunto la perdita delle propria eredità, e in particolare quella cristiana, che non è un semplice retaggio del passato o un orpello del quale ora è giunto il tempo di sbarazzarsi, bensì è costitutiva di una precisa identità, che è importante conservare. Perché, ha sentenziato Sarah, «se diciamo che non siamo più cristiani, siamo come un albero che galleggia […], ma un albero che galleggia senza radici non ha futuro».

Fonte: Giulia TanelIlTimone.it

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