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Salute e bioetica L’irrompere della realtà in una storia di contemporaneo «orrore»

La clinica Ccrh di Los Angeles scambia gli embrioni e due coppie si ritrovano con la figlia “sbagliata”. Le famiglie, ora in causa con i medici, dopo un anno hanno acconsentito a scambiarsi le neonate. È la dimostrazione che l’amore non basta.

«Dover dire a mia figlia di 7 anni che sua sorella non era davvero sua sorella è stata la cosa più dura della mia vita. Mi si è spezzato il cuore per lei». Così ha dichiarato alla stampa internazionale Daphna Cardinale, che per l’errore di un centro specializzato nella fecondazione assistita, in California, ha portato in grembo per nove mesi e partorito il bambino di un’altra coppia. La quale, allo stesso tempo, ha dato alla luce il loro.

Lo scambio di embrioni e la fecondazione

Le fecondazioni assistite, omologa nel caso dei Cardinale, sono avvenute nel 2019 presso il Centro della California per la salute riproduttiva (Ccrh) di Los Angeles, un colosso della fertilità che offre alle coppie tutti i migliori ritrovati della tecnica per soddisfare i desideri di genitorialità: dalla eterologa alla maternità surrogata, dalla selezione del sesso del figlio al congelamento degli embrioni.

Dopo lo scambio degli embrioni, due bambine sono venute alla luce nel settembre del 2019 e le famiglie, pur sospettando da subito un errore a causa del colore della pelle dei neonati che non rispondeva a quello atteso, si sono accertate soltanto dopo tre mesi della verità attraverso un test del Dna. Entrambe, per quanto addolorate, hanno accettato di scambiarsi i neonati nel gennaio 2020 e lunedì hanno fatto causa alla clinica. Al contrario dei Cardinale, la seconda coppia non ha voluta rivelare la propria identità.

«Non era la nostra figlia biologica»

Quando ha scoperto i risultati del test del Dna, ha dichiarato Daphna in conferenza stampa annunciando la causa legale, «sono stata sopraffatta da sentimenti di paura, tradimento e rabbia. Ho provato un dolore straziante. [La clinica] mi ha derubato della possibilità di portare in grembo mia figlia. Non ho mai avuto l’opportunità di sentirla crescere dentro di me e di cementare il mio legame con lei durante la gravidanza, di sentire i suoi calci».

I Cardinale amavano la bambina che hanno cresciuto e accudito per tre mesi, hanno aggiunto, «ma non era la nostra figlia biologica. Invece di allattare mia figlia, ho allattato e cullato una bambina che ho poi dovuto dare via». «L’orrore di questa situazione non può essere sminuito», ha aggiunto l’avvocato.

La retorica del #loveislove e la realtà

Quella dei Cardinale è una storia di contemporaneo e tecnologico «orrore» che smonta alla radice, pezzo dopo pezzo, tutta la retorica sull’amore che i media progressisti e la fanfara arcobaleno ci ammanniscono da anni. I Cardinale, al pari della seconda coppia protagonista di questa disavventura, hanno infatti amato per oltre un anno una bambina che non riconoscono più come “loro”. E proprio gli aggettivi possessivi sono fondamentali: non è di quella piccola che ha portato in grembo per nove mesi e allattato per tre che si sente madre Daphna. Ma dell’altra, di quella che ha iscritto nel sangue il suo stesso Dna.

Eppure da anni ci viene detto che la biologia non conta, che la madre è un “concetto antropologico”, che l’ovulo per fabbricare l’embrione può essere fornito da qualunque studentessa passi per la strada e lo doni generosamente, che il neonato può essere partorito da un’incubatrice estranea, da un utero affittato, che il padre non è certo quello che si limita a fornire lo sperma, che può essere reperito in una banca del seme, che ciò che conta è l’intenzione di avere un figlio, la volontà di accudirlo (e i soldi per procurarsi il materiale genetico necessario).

L’amore non basta

Questo è quello che scrivono tutti i giornali e gli attivisti, Lgbt e non, perché #loveislove e se lo dice persino un hashtag dev’essere così. Eppure Daphna e suo marito Alexander, sicuramente dopo un percorso doloroso e travagliato, hanno definito “loro” non la figlia che hanno conosciuto e amato ma la «nostra figlia biologica», sconosciuta, amata e cresciuta da altri.

Tutta la retorica di questo mondo si è infranta davanti a una realtà semplice e banale come il vagito di due neonate. Che, non bisogna dimenticarlo, sono le prime vittime dell’utilizzo sciatto e superficiale di una tecnica che permette l’avverarsi di storie dell’«orrore». Neonate che hanno avuto per un anno le cure e l’amore di due madri senza dubbio impeccabili, che però non erano le “loro”.

Fonte: Leone GROTTI | Tempi.it

 

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