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Emanuele Trevi. L’amicizia dell’altro

Il libro con cui ha vinto il Premio Strega è un viaggio intimo in due vite, a cui si intreccia la sua. Lo scrittore romano si racconta. E parla del «tema dominante» di tutta la sua opera.

«Bisogna anche avere il coraggio di investirlo, questo tempo». Lui lo fa mettendo se stesso nella scrittura, scegliendo con cura, una per una, le parole da battere sui tasti del pc. Anche stavolta che accetta volentieri di rispondere a un’intervista per Tracce. Domande e risposte viaggiano via mail: porta via qualcosa alle mille possibilità che si aprono in un incontro faccia a faccia; ma è comprensibile, visto il periodo e viste le richieste arrivate prima e, soprattutto, dopo l’8 luglio. Ovvero, il giorno in cui Emanuele Trevi, 57 anni, scrittore e critico letterario, ha vinto lo Strega, il premio più importante d’Italia.
Ci era arrivato vicino nel 2012, con Qualcosa di scritto, lo ha conquistato adesso raccontando Due vite (Neri Pozza). È la storia, intrecciata, di due amici comuni, Rocco Carbone e Pia Pera: scrittori anche loro, entrambi morti presto (lui a 48 anni in un incidente stradale, lei a 60 di Sla), eppure vivissimi nel cuore e nella memoria di Trevi. Ma è anche una chiave per raccontare noi e il mondo, se è vero che «in ogni destino umano passa tutto l’universo», come ha detto lui stesso in un’intervista di qualche tempo fa.
E allora, ci trovi Rocco con la sua «fissazione a capire», la domanda testarda di un «perché?» e la «pericolosità ostinata» con cui «bruciava la vita»; o leggi di Pia, «anima prensile e sensibile» con una «vocazione inestirpabile ad accudire e proteggere», e in quei tratti assolutamente loro, particolari, ci intravvedi qualcosa di universale, capace di parlare a tutti. Perché in fondo cerchiamo tutti quello che Trevi lascia dire a Cristina Campo (splendida voce, sarebbe da rileggere) nell’esergo a inizio libro: «Quanto ad essere felici, questo è il terribilmente difficile, estenuante». Ma è di quello che abbiamo sete. Di quello, e di qualcuno con cui condividerlo.

Perché un libro sull’amicizia è arrivato proprio adesso? Perché ha sentito il bisogno di raccontarla ora?
In realtà l’amicizia è il tema dominante di tutti i miei libri, anche se nell’ultimo viene evidenziato in maniera maggiore. Per me, è la posizione esistenziale più vantaggiosa e gratificante, perché contiene il bene supremo di questa vita: la gratuità, il tempo perso.

Lei è cambiato lavorando a questo libro?
Quando inizi un libro, sei più giovane di quando lo finisci. E forse questo è l’argomento segreto di tutti i libri.

Parliamo di Rocco Carbone. In tutti i suoi libri, lei dice, c’è «l’impronta dello stesso schema. L’apparire dell’altro non è l’epifania di una reale alterità, ma l’emergere di una parte nascosta, o rimossa, della coscienza», cioè di noi. Ma l’ “altro” chi è davvero per noi?
Come suggerisco a proposito di Rocco, noi viviamo tra due specie di alterità: gli altri in senso stretto, e quelle componenti della nostra psiche che, nel bene e nel male, ci appaiono dotate di una potenza che ci sovrasta. Rocco confondeva sempre i due piani nei suoi libri.

Una delle caratteristiche di Carbone era l’ossessione di trovare il «senso esatto delle parole», di eliminare qualsiasi ambiguità: e lei osserva che «in ballo c’era qualcosa di più profondo, necessario e vincolante di un certo gusto artistico o letterario». Cosa era?
Pensava che eliminando l’ambiguità i suoi piedi avrebbero poggiato su un terreno più solido. Aveva ragione e torto nello stesso tempo, ma ognuno elabora una propria strategia per sopportare l’angoscia.

Per parlare dell’insoddisfazione di Rocco, a un certo punta cita Camille Claudel: «C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta». Lei non condivide la sua testardaggine nel «voler capire», nell’«opporre resistenza». Ma che cosa la affascina in questa sua caratteristica?
Io penso che l’oracolo delfico, «conosci te stesso», sia discutibile. Questa domanda che mi pone è penetrante, perché in realtà c’è qualcosa che mi affascina nella caparbietà di Rocco nel volersi conoscere. Non ci avevo pensato in questi termini. Mi chiedo perché desidero così poco conoscermi.

“Due vite” è anche un libro sulla felicità. Dall’esergo della Campo alla dichiarazione a carte scoperte che l’«infelicità» era il problema fondamentale per Rocco, alla ricerca finale di Pia… Per lei, che cosa è la felicità?
Mi rendono felice i giorni tranquilli, le passeggiate nel parco vicino a casa, le sere con gli amici, gli amori fugaci e proibiti (ma ormai sto invecchiando…), leggere e scrivere, e in generale tutte le abitudini dotate di durata e di dolcezza, come andare la domenica a frugare tra le bancarelle di Porta Portese, vedere la partita, sedermi al bar. Ho una rarissima fortuna: sono tornato a vivere nel quartiere in cui ho passato la mia infanzia. Questa è una cosa che mi rende felice.

L’altra faccia dell’amicizia che racconta è la solitudine: Pia, per esempio, ne soffre molto, quando si ammala. Che cosa è per lei? Quanto è dolorosa e quanto importante?
Diciamo che Pia si è dimostrata una vera guerriera, l’ammiro per come ha affrontato la sua ora, spero di prendere esempio quando toccherà a me. Se anche Gesù Cristo, mi dico sempre, è stato solo e sconfortato nell’Orto degli Ulivi, che possiamo fare noi? A un certo punto la vita ci lascia soli come i bambini perduti nel bosco delle fiabe, è il nostro destino, non ne possiamo evadere.

Nel libro scrive: «Le vere rivoluzioni sono trasformazioni di ciò che già sappiamo, di ciò che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi. Perché è vero solo ciò che ci appartiene, ciò da cui veniamo fuori». Ci spiega meglio?
Istintivamente non mi piacciono le trasformazioni che comportano delle novità esteriori. Perché tutto matura, cambia di senso. Non capisco, per esempio, come uno possa sposare una religione nella quale non è cresciuto. Io non credo in Dio, sono sempre stato ateo, anche nell’infanzia non ci ho mai creduto a quanto mi ricordo, però venero un crocifisso appeso a un muro, mi faccio il segno della croce quando entro in una chiesa, rispetto i preti e le monache. E tutto questo è un vantaggio, un ordine simbolico che ti accompagna nella vita e che puoi trasformare a tuo piacimento. Ma se divento buddista o ebreo, che significa? Mi manca il retroterra. Non mi convince, ognuno deve rosicchiare l’osso che gli è toccato.

In un’intervista ha detto che «non dobbiamo avere troppa memoria delle cose, ma nemmeno dobbiamo lasciare che si perdano». Che peso ha per lei la memoria? Come la si custodisce?
La verità è che la memoria fa solo quello che vuole lei, quindi a queste domande mi viene sempre da rispondere: chiedete a lei.

In quella intervista affermava anche che l’arte, e soprattutto la letteratura, è «la creazione di uno spazio in cui il mondo è intelligibile in maniera comune». Fatto eccezionale, perché la normalità è che «nessuno ci può raggiungere nella nostra identità» (citava Malraux: «Come noi sentiamo la nostra voce che risuona nella nostra testa, nessun altro può sentirla»). Ma come si crea questo spazio comune? E “fuori” dall’arte?
Fuori dall’arte non lo so, e tra l’altro mi fa paura, se penso alla politica. Nella religione c’è un fenomeno del genere, trovo molto interessante il libro di Jung sul simbolismo della Messa, ma io non sono credente. La bellezza ci accomuna in modo potente ma innocuo. Nel mio libro ha un’importanza capitale l’episodio della visita al museo dove c’è il quadro di Gustave Courbet. Volevo dire che quel quadro ci ha dato la certezza momentanea di vivere nello stesso mondo.

Altra parola-chiave: nostalgia. «Consiglio a chiunque abbia nostalgia di un altro di scriverne». Perché?
Perché scrivere è un’attività talmente complessa e imprevedibile che riduce le prerogative dell’ego, è una forma creativa di nostalgia, di per sé la nostalgia è una cosa inerte, torpida.

Ma alla fine il «fastidio di esistere» di Rocco, che cosa è? Anche qui, lo sente un po’ suo?
No, assolutamente, a parte qualche periodo di depressione (come quello che descrivo in Sogni e favole) a me piace esistere, vorrei campare diecimila anni.

A conti fatti, che effetto fa vincere lo Strega? Pavese, tornato a casa, scrisse: «A Roma, apoteosi. E con questo?». Per lei?
Sono stato molto bene, gli amici mi hanno molto sostenuto, mi sono lasciato sostenere. Stranamente pochi giorni prima ho dormito a Torino all’Hotel Roma dove si è ucciso Pavese. Ma io ho un carattere molto diverso.

Le ho sentito dire una volta che diventare scrittore è una specie di investimento a lungo termine, occorre tempo per capire dove puoi arrivare ed è difficile vivere assaliti dal dubbio: «Non starò sprecando il mio tempo?». Non crede che sia una domanda decisiva, per tutti, a qualsiasi età?
Be’, bisogna anche avere il coraggio di investirlo, questo tempo. In fondo di fronte alla morte tutto è un fallimento.

A proposito di tempo sprecato, o non sprecato. Ho finito di leggere “Due vite” appena prima di sentire il discorso in cui Mattarella ringraziava la Nazionale di calcio anche «per aver manifestato il legame comune che vi ha unito in tutto questo percorso». È chiaro che non parlava solo degli Europei… Quanto abbiamo bisogno di riscoprire la profondità di quello che ci lega all’altro? E quanto ne abbiamo bisogno in questo momento, dopo un anno e mezzo di pandemia?
Io sono abituato a stare in mezzo agli altri, in tutti i sensi, la mia porta è sempre aperta, anche se poi ho bisogno di un po’ di solitudine per scrivere e leggere. Ma insomma, nonostante il mio lavoro sono il contrario di un solitario, mi ostino a uscire tutte le sere. Sto bene anche in compagnia di me stesso ma alla fine mi annoio.

Cosa ci siamo persi in questi mesi? Abbiamo smarrito qualcosa di noi?
Ma no, spero di no.

E abbiamo guadagnato qualcosa? Lei, per sé?
Ho rinsaldato molto certi legami, ma io vivo solo, non ho figli né genitori, gli amici e i legami profondi per me sono l’unica realtà del mondo. A costo di qualche rischio, non ci ho potuto rinunciare nemmeno nei mesi peggiori.

Il lockdown per lei ha voluto dire anche perdite molto dolorose. Prima fra tutte, sua madre. Come tocca la vita una perdita così?
È stato un periodo difficile per tutti, quindi non mi lamento, credo che l’unica maniera di sopportare lutti e perdite sia fare sempre qualcosa per gli altri, aiutare, ascoltare, dare importanza. Poi francamente non sono un santo, però quello che dai ti torna da un’altra parte.

Ultima citazione dal libro: «Ogni volta che siamo colpiti da un’immagine della bellezza e della dignità umana, è sempre all’opera una discriminazione riuscita tra il futile e l’essenziale, e dunque il senso di una parte di noi che non soccombe, non si lascia trascinare via da nulla». Che cosa è questo «essenziale» per lei? E questa «parte del nostro io» che è irriducibile, che non cede? In cosa la vede?
Nell’autonomia, che ci porta a individuare ciò che è futile e a rinunciarci. L’amore per l’arte, per la bellezza è sempre stato per me un orientamento spirituale decisivo, nel senso che mi rende libero, mi svincola dalla pressione del mondo. Io amo molto la pittura, forse anche più della letteratura, e quando ho quei dieci minuti per entrare in una chiesa, o in un museo… ecco che tocco con mano quello che definisco l’«essenziale».

Fonte: Davide Perillo | Clonline.it

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