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Gli 81 anni di Pippo Franco e la nuova sfida per Roma

L’artista racconta vita e carriera: dalla pittura d’avanguardia al cinema. E ora scende in campo al fianco del candidato del centrodestra per riconquistare il Comune

Alla domanda su cosa direbbe ad un giovane che avesse voglia di intraprendere la strada dello spettacolo, ci regala questa chicca: «Dovrà rispondere a due semplici domande: chi sono e cosa ho da dire». Attore, cantautore, regista, cabarettista, scrittore, fumettista, chitarrista, sceneggiatore, pittore. Pippo Franco è tutto questo. Il camaleontico artista romano – amatissimo dagli italiani dai 9 ai 90 anni – ieri ha compiuto 81 anni. Questa lunga cavalcata nella sua ricca storia personale è un concentrato di vivacità intellettuale, saggezza, spiritualità. Qualità che – vista la sua discesa in campo a fianco del candidato sindaco Enrico Michetti – potrebbero fare di lui il prossimo assessore alla cultura della città di Roma.

Artisticamente nasce come pittore d’avanguardia, nella stessa compagnia di Mario Schifano. Le cose andavano bene, con i primissimi quadri venduti riuscì ad acquistare una macchina. Perché lasciare una carriera così promettente?

L’immagine che ci sovrastava e che ci guidava era l’“Urlo” di Munch. I miei amici, come anche i professori con cui avevo studiato arte, non essendo credenti, avevano sposato il dramma. Erano immersi nel senso drammatico della vita, smarriti nel gorgo dell’esistenza, quello che non vede alcuna soluzione. Una voce interiore mi disse di allontanarmi da quel “dramma esistenziale”.

Si pentì?

Affatto. Tutti i miei amici di allora bruciarono le loro esistenza con droga e alcol. Li incontravo nelle farmacie ad elemosinare metadone. Sfatti, irriconoscibili.

A inizio di carriera un altro snodo curioso fu quando abbandonò in tronco l’esame di maturità in corso per raggiungere un set con Mina e Modugno.

Dipingevo e contemporaneamente facevo il musicista, ma ancora dovevo prendere la maturità al liceo artistico. Proprio durante l’esame sapevo stava partendo il treno per Ischia, dove dovevo girare un film con Mina e Modugno. Mi aspettavano perché suonavo la chitarra nell’orchestra di Mina. Presi una decisione, che anche quella volta veniva fuori da me.

Concretamente come andò?

Andò che chiesi al professore di poter uscire un attimo per prendere un caffè. Corsi invece in stazione, mentre il docente, poverino, si alzò per cercarmi al bar… Ci penso ancora. Ma se non avessi preso quel treno al volo la mia vita sarebbe andata in un’altra direzione, un po’ come in “Sliding Doors”. Si trattò di una sorta di sesto senso, Einstein la definiva “intelligenza irrazionale”, che per lui era un dono sacro…

È vero che lei è un convinto prolife?

Certo. Sono anche stato causa della nascita di molti bambini.

Nel suo libro con Rita Coruzzi (La morte non esiste, Piemme) racconta di quella volta che al telefono convinse una sconosciuta a non abortire.

Ero su un traghetto diretto all’Elba quando mi squillò il cellulare. Era una donna che io non conoscevo, si presentò come sorella di un’attrice. Evidentemente doveva sapere che la difesa della vita mi stava a cuore.  Insomma, mi disse che a causa della turbolenta relazione col marito voleva abortire il bambino che portava dentro.

Una richiesta d’aiuto.

Col senno del poi forse sì, ma in quel momento era convinta, irremovibile. Mi chiesi subito da dove cominciare. Faccio il comunicatore di professione per cui ebbi subito chiara la “scaletta”. Partii parlando di tutto ciò che avrebbe dovuto affrontare: «Sappi che il cuore del tuo bambino si sente, che dovrai superare un senso di colpa che ti accompagnerà tutta la vita, che…». Andai avanti finché le dissi: «Adesso facciamo conto che tu lo faccia nascere…». Mi fermò subito.

Per dirle?

«No, basta, grazie. Mi ha già convinta. Tengo il bambino». Quando, alla fine della telefonata, chiesi il suo nome, incrociai per caso lo sguardo del capitano che aveva udito tutto: era tra il grato e l’attonito (ride, ndr).

È notizia di questi giorni che lei scenderà in campo a fianco di Enrico Michetti, candidato del centrodestra a sindaco di Roma. Cosa l’ha spinta?

Non sono un politico di professione ma mi è stato chiesto un impegno e ho accettato l’invito. Nel mondo dell’arte ho rivestito tanti ruoli: ho lavorato come fumettista, ma sono stato anche musicista, cantautore, ho scritto libri, sceneggiature di spettacoli televisivi e teatrali ed ho fatto l’attore. Ecco, vorrei mettere a disposizione di Roma l’esperienza accumulata in campo artistico.

Ha detto: «Prima Roma era Caput Mundi, ora la vedo solo kaputt». Quale sarà la sua priorità per la cura della città?

Valorizzare Roma per la sua storia, per la grandezza che rappresenta nel mondo. Mi piacerebbe che Roma, al livello artistico, quanto a opportunità e risorse economiche potesse competere almeno con Milano. Bisogna aprirsi alle altre culture, interfacciarsi con intelligenza. A Roma è raccolta tutta la storia, ma ora è tutto vivisezionato, ghettizzato. Bisogna raccogliere e valorizzare le esperienze. Che non significa uniformarle.

Per uno che è caduto in un fiume pieno di coccodrilli, sfidare la Raggi è una gioco da ragazzi. Successe sul set di un film di Luigi Magni, come andò?

Stavamo girando La via dei babbuini con Catherine Spaak, era il ‘74. Dovevo saltellare sul fiume ma le mie scarpe erano bagnate e ci cascai dentro. Per fortuna li avevo studiati. Sapevo che il coccodrillo di notte non vede bene ma segue i movimenti: se c’è un uccello che cade o qualcosa che si muove nell’acqua lui la porta sotto. Dopo mezzora riaffiorano solo le carcasse.

Come si salvò?

Quando caddi capii che non dovevo muovermi, tantomeno nuotare, piuttosto salire come un tronco, un pezzo di legno. Immobile. Per il terrore, quella risalita mi è sembrata durasse ore. Invocai con tutto me stesso lo Spirito Santo, uscii con un braccio in alto e trovai la mano di Gigi Magni, al quale sarò grato per tutta la vita.

L’essere per sua natura autocentrato, piegato su se stesso, spesso porta l’artista a “perdersi”. Dall’alto dei suoi 81 anni cosa consiglierebbe ai giovani scalpitanti colleghi?

Vale per chiunque, ma per un artista è assolutamente fondamentale destrutturare l’ego, specie quando la fortuna ti sorride. È proprio quello il momento in cui il male si insinua e può distruggerti.

L’esperienza del Bagaglino oggi sarebbe ripetibile?

Erano spettacoli da 14 milioni di spettatori. Già questo dice che erano un unicum. Ma non c’è solo il successo e rendere inattuale quella stagione di cabaret.

Che altro c’è?

Bè, oggi è tutto molto fluido: viviamo di Dpcm, di governi che cambiano continuamente, non fai in tempo a stare dietro alla realtà. Ogni giorno ne succede una. Alla fine della settimana cosa racconti?

Lei ha conosciuto bene Natuzza Evolo, la mistica calabrese. Che ricordo conserva?

“Nun sacciu leggeri”, ripeteva. Era analfabeta ma era la donna più intelligente che abbia mai conosciuto. 34 anni di conoscenza stretta, anche con suo figlio Antonio, mio coetaneo.

Le sudorazioni ematiche della mistica di Paravati si trasformavano in emografie su fazzoletti, bende, sul proprio corpo: disegni, preghiere, salmi, anche in latino e in aramaico. Le è mai capitato di assistere a questi fenomeni?

Molte volte. Capitavo da lei sempre dopo i suoi sanguinamenti. Una volta mi regalò un fazzoletto, tornai a casa e vi trovai quattro disegni. Erano un preciso indirizzo per la mia esistenza, una vera road map da seguire. Fu un dono preziosissimo.

Fonte: Valerio PECE | Tempi.it

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