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ULTIMO BANCO – 83. Fuga in Polinesia

A un bambino di sei anni, figlio del fabbro di un paesino francese di pochi abitanti, tutte le notti un vecchio appare in sogno per insegnargli una lingua misteriosa. Il bambino, nato nel 1948, si chiama Marc Liblin e vive a Luxeuil, nota per l’antica abbazia e le acque termali. Nessuno gli crede fino a che alcuni ricercatori dell’università di Rennes, in Bretagna, incuriositi, decidono di studiare il caso, senza però riuscire a decifrare la lingua che Marc, ormai 33enne, parla fluentemente… ma proprio in un bar di Rennes un vecchio marinaio lo sente parlare e riconosce la lingua di un’isola della Polinesia francese in cui era stato: Rapa Iti, 50 km quadri sperduti al centro del Pacifico, su cui oggi vivono 500 abitanti.

Il lupo di mare conosce anche una donna nata su quell’isola che — il caso non esiste — abita proprio lì vicino: si chiama Meretuini Make, abbandonata dal marito, un militare francese che l’aveva portata via dall’isola e sposata, è rimasta a vivere in Francia. Quando bussano alla porta e Marc le parla nell’idioma dei suoi sogni, lei risponde nella lingua che le aveva insegnato suo nonno (forse il vecchio del sogno di Marc): era l’antico idioma di Rapa Iti. I due è come si conoscessero da una vita, si sposano e ritornano sull’isola sperduta nel Pacifico, dove Marc all’inizio desta sospetti perché è uno straniero che parla la lingua sacra degli antenati: un vero e proprio sacrilegio. Ma a poco a poco riesce a farsi accettare: la coppia avrà 4 figli e vivranno felici per 16 anni a Rapa Iti, fino al 1998, quando Marc muore per un tumore, a soli 50 anni.

Questa storia è tutta vera e la racconta Judith Schalansky nel bel libro Atlante delle isole misteriose.

Quando l’ho letta mi sono interrogato su due cose: l’anima gemella e il linguaggio degli amanti.

L’anima «gemella», se esiste, di sicuro parla la tua stessa lingua, una lingua necessaria a «ri-conoscersi» («mi sembra di conoscerti da una vita» si dice) come Marc e Meretuini. Mi è tornato allora in mente Gary Chapman, autore della nota serie di libri sui 5 linguaggi dell’amore. Secondo l’autore ciascuno di noi impara, sin da bambino, a riempire il proprio serbatoio d’amore in base a uno dei cinque modi prevalenti in cui l’amore ci raggiunge: gesti di servizio, momenti speciali, parole di incoraggiamento, doni e contatto fisico. C’è chi si sente amato quando riceve gesti di aiuto concreti (faccende molto ordinarie); c’è chi si sente amato grazie a momenti di condivisione speciale (cene, passeggiate, gite…); c’è chi ha bisogno di ricevere parole di stima (sei bello/a, sono fiero/a di te, ma come ci riesci?); c’è chi usa il linguaggio dei doni (anche solo simbolici come un fiore); c’è chi infine ha bisogno del tatto (pacche, carezze, baci, abbracci…). Tutti parliamo questi 5 «dialetti» dell’amore ma solo uno o due sono per noi fondamentali per «sentirci» amati.

Spesso chi ci ama lo fa nella sua lingua dominante, ma a noi quell’amore non arriva: ci sta dicendo «ti amo» in una lingua che non pratichiamo. Il segreto di un amore «efficace» (coppia, amicizia, fraterno…) è conoscere il o i linguaggi prevalenti dell’altro e tradurre il proprio amore in quella lingua.

Ricordo un amico la cui moglie parlava la lingua dei gesti di servizio e si sentiva amata quando lui, per esempio, lavava i piatti, mentre lui usava prevalentemente il proprio linguaggio, il contatto fisico. Quando capì che per la moglie i piatti erano come un bacio e cominciò a lavarli più spesso, benché gli costasse, la moglie cominciò di pari passo a parlare la lingua del «contatto fisico» in risposta ai suoi «gesti di servizio». Amare è imparare a parlare la lingua di un altro, come accadde a Marc grazie ai suoi sogni di bambino, sogni che lo avevano preparato al grande amore della vita.

Alla fine dell’anno ho dato ai miei studenti un questionario per determinare l’ordine di importanza dei loro cinque linguaggi dell’amore. Hanno capito che spesso non si intendono con qualcuno perché parlano lingue diverse. Un’alunna ha sbottato: «Mio padre non sa parlare i linguaggi di cui io ho più bisogno». Allora li ho invitati a ipotizzare i linguaggi dominanti dei genitori, per poi sottoporre il questionario anche a loro. Il tutto si è concluso con l’impegno di esercitarsi nel parlare, lungo questa estate, ogni giorno, almeno una volta, il linguaggio prevalente di un altro familiare, per scoprire quanto dia felicità sforzarsi di parlare la lingua altrui e non solo aspettarsi che gli altri parlino la nostra.

Questa comunicazione che decentra da se stessi e porta ad aprirsi all’altro così com’è, riempie d’amore anche noi, tanto quanto se non di più di quanto faccia l’amore che riceviamo (è proprio vero che c’è più gioia nel dare che nel ricevere). Quest’estate, in cui potremo viaggiare poco all’estero, magari scopriremo che la Polinesia è più vicina di quanto crediamo…

Fonte: Corriere.it

 

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